La FIR, duole ammetterlo, è ancora il piccolo e disordinato regno dell’Assurdistan.
Passata un’estate in cui i pezzi pregiati del nostro alto livello hanno fatto le valigie (Franco Smith, Augustin Cavalieri, Monty Ioane), in cui le polemiche sulle (presunte e se confermate, pesantissime) irregolarità inerenti le procedure di tesseramento nei campionati italiani dei giocatori eleggibili sono rimaste sotto traccia, siamo tutti pronti a tuffarci nel calendario agonistico promulgato dalla Federazione.
Primo boccone amaro: il campionato under 19. Qualcuno ha provato a destreggiarsi nella formula cervellotica adottata per il massimo torneo juniores ? Se non lo avete fatto, fatelo, perchè è un bel test di logica.
Questo è lo sconsolato prologo di una piccola panoramica sull’operato di uno degli organi più innovativi della nuova Federazione.
È trascorso più di un anno dall’istituzione del team promozione e sviluppo della FIR.
Il portale web rugbyXtutti è la vetrina del gruppo di lavoro che dovrebbe, nelle intenzioni dichiarate dal Presidente Federale: fare dei nostri Club, di ogni Club, un vero e proprio Centro di Formazione capace di costruire persone e atleti pronti per l’Alto Livello. In sostanza una task force attrezzata per condividere conoscenze e competenze che poi i club potranno riprodurre in autonomia, senza che la Federazione si sostituisca ad essi per alzare il livello tecnico ed organizzativo di entità private.
Una visione moderna, un progetto interessante, sostanzialmente nuovo, che però necessita di poggiare su basi concrete per essere efficace o almeno tangibile. Prendiamo il caso degli Open Day FIR. Secondo il piano di comunicazione diffuso sui principali media, si tratterebbe della più grande operazione di avviamento al rugby per neofiti e appassionati.
(spot animato o da rianimare?)
Ma i numeri? La scorsa stagione agonistica di Open Day ne sono stati organizzati due. Alla fine degli eventi non sono mai stati comunicati i numeri complessivi dei partecipanti. Quanti ragazzi hanno frequentato? Quante ragazze? Quanti di essi si sono fermati e poi tesserati?
Tutto è affidato de facto alle società, compreso il censimento. Dunque è impossibile sapere se il processo di propaganda del nostro Minirugby, nell’ultimo anno gestito direttamente dalla FIR, è in attivo e in passivo.
Prima di lanciarsi in sterili polemiche che non sono alla base dell’articolo, vediamo con precisione di che cosa si tratta quando si parla (rigorosamente in Inglese, sia mai in italiano..) di Open Day.
Secondo la pagina web di RugbyXtutti: “L’Open Day è una delle azioni più efficaci che il Club di Rugby può realizzare per farsi conoscere, per creare interesse e per attrarre a sé nuove persone. “Open” significa “aperto” e quindi sono fondamentali, in questo genere di azione, la capacità di aprirsi, di accogliere e di far sentire le persone a proprio agio. Molte esperienze di successo negli ultimi anni dimostrano che è necessario organizzare l’Open Day con grande precisione, prevedendo una serie di azioni da compiere prima, durante e dopo l’evento.”
Ok, tutto giusto. Solo che ci troviamo di fronte ad una piccola scoperta dell’acqua calda. Fare una campagna pubblicitaria, organizzare l’attività sportiva per convogliare bambini o adolescenti sul campo, dare seguito ai contatti raccolti, sono attività che fanno già più o meno tutti i club di rugby in Italia. Non da oggi, da sempre.
Bravissima la Federazione a registrare ufficialmente il concetto di Open Day, anche perchè fino alla gestione Innocenti non lo aveva fatto nessun’altro. Solo che qualcuno poteva avvertire FIR Promozione e Sviluppo che la stragrande maggioranza delle società organizzano da anni questi Festival. Li propongono in periodi molto più strategici rispetto alla metà di settembre come proposto da FIR. Anzi, diciamocelo serenamente, i club mediamente organizzati sono già ripartiti dalla fine di agosto e sono al lavoro da mesi per diffondere il verbo ovale nelle scuole, nei parchi, nelle città. Basta fare una banale ricerca su google e si troverà che la pancia del rugby italiano è già alacremente indaffarata nel raccogliere nuovi adepti.
Il modello degli Open Day dunque non solo non inventa nulla, ma offre un valore aggiunto intangibile per quelli che sono i processi di reclutamento perseguiti dai club italiani.
Gli Open Day FIR, quando escono dai ritagli in rassegna stampa, si riducono ad un diplomino e a una decina di card da utilizzare per i social, un documento fatto di generiche linee guida e poco di più.
Prima di tirare conclusioni affrettate, sono sicuro che lo staff preposto dalla FIR allo sviluppo armonico del Minirugby sia al lavoro già da un anno. Sono sicuro che i tecnici stanno girando l’Italia al fine di spiegare, dal vivo, come si costruisce un Open Day ai dirigenti delle società meno attrezzate o a quelle appena affiliate. Però mi permetto di avanzare qualche dubbio sull’efficacia dell’ evento nazionale, ai miei occhi più di facciata che di sostanza.
Per questo mi pongo qualche domanda.
Visto che la prospettiva dell’Open Day è essenzialmente pubblicitaria, come si può aumentare il livello di visibilità se l’Open Day non prevede la presenza, ad esempio, di testimonial d’eccezione? Potrebbe essere che forse, dico forse, un gruppo di giocatori di Italrugby non legati all’attività internazionale per infortuni/indisponibilità o ex giocatori particolarmente influenti in TV o nel mondo dei Social Media vengano utilizzati per un Tour che periodicamente copre tutta la penisola e attira telecamere, curiosi, in poche parole che attira gente? Magari con un bel camper elettrico, così ci laviamo anche la coscienza in termini di ambiente ed ecosostenibilità. Oppure, visto che di fare operazione di branding (e qui l’inglese ci vuole) si tratta, perchè non optare per una consegna gratuita di materiale griffato FIR? Palloni in gomma piuma, t shirt, bandiere? Fate voi. Inventate un flash mob, insomma una situazione che possa far dire: “che fighi quella della FIR!”
È una proposta che male si sposa col budget? Ok, forse si può iniziare da qualcosa di più semplice, ma non diteci che il diplomino cartaceo in PDF, di certo meno caro, è qualcosa di concreto.
Capitolo rugby a 5, beach, touch, tag rugby e affini.
Qui si tratta di micro discipline che sono state pensate per avvicinare i neofiti senza incorrere nei potenziali traumi, tipici del contatto fisico (è il caso di touch e tag). Oppure sono variazioni sul tema Rugby a 15 che consentono di giocare sulla spiaggia e/o in periodi di off season (è il caso del Beach rugby).
E anche qui sorge la domanda: quanto è distante la realtà dalla narrazione?
Prima di avanzare dei dubbi, devo dare atto che il Beach rugby è stato trattato bene. 40 tappe, le finali del Campionato Italiano in diretta streaming, molti contenuti di aggiornamento presenti sugli account ufficiali della Federazione e poi una diffusione dei tornei abbastanza ampia, così che l’Italia ovale potesse sfruttare l’altissimo numero di spiagge a sua disposizione per ricevere un campionato da nord a sud.
Anche in questo caso, oltre al numero significativo degli appuntamenti, qualche interrogativo sorge spontaneo. Vista la geografia del nostro territorio, vista l’attitudine degli italiani a popolare le spiagge da giugno a settembre, quante sono state le occasioni in cui il Beach Rugby si è trasformato in veicolo di pubblicità per la nostra disciplina? Quando e dove si è cercato di organizzare tornei (o banalmente eventi conoscitivi) i cosiddetti Open Day di cui sopra, magari di Rugby al tocco on the beach, dedicati alle migliaia di bambini, bambine, adulti che affollano gli arenili?
Perché se si tratta di valutare la stagione agonistica del Beach Rugby, beh, le cose sembrano essere state davvero belle. Laddove c’è stata competizione, c’è stato spettacolo inutile negarlo. Se però si pensa che in estate abbiamo 3 mesi di sole, di mare e di spiagge capaci di avvicinare potenziali avventori, direi che forse abbiamo perso più di un’occasione. Il Beach Rugby per i rugbisti è adeguato. Il beach rugby per i neofiti sarebbe auspicabile.
E il touch?
La versione al tocco è in linea teorica la miglior disciplina per rimanere nell’ambiente quando si termina l’attività agonistica. È un ottimo modo per iniziare a conoscere il rugby, coinvolgere amici, annullare o compensare le differenze fisiche ed atletiche dei giocatori e delle giocatrici. Insomma, un giochetto che può divertire senza troppo impegno. In Italia si gioca da molti anni, purtroppo in maniera confusa e non capillare. Esistono due federazioni che si occupano di gestire l’attività, elemento che non aiuta a creare ordine tra i praticanti.
Da una parte c’è la FIR che sviluppa l’attività sulla base del regolamento di World Rugby, dall’altra c’è Italia Touch che invece si basa sul regolamento, un po’ più articolato della FIT, la federazione internazionale touch. Il regolamento di World Rugby è propedeutico al rugby union, quello FIT invece si avvicina di più ai principi del Rugby League.
Italia Touch si è dotata di un campionato, di una nazionale, di un settore arbitrale e di una struttura tecnica precisa. In sostanza, seppur con la palla ovale, fa un altro sport. Però lo fa con tutti i crismi.
Il Touch della FIR invece è più vicino all’essenza del gioco a 15, ma molto più nebuloso sul piano organizzativo. Per comprendere bene la confusione che regna sul piccolo mondo del rugby a tocco, è il caso di spendere due parole sull’evento finale del cosiddetto Trofeo Nazionale Touch, svolto a Parma il 4 giugno 2022.
Purtroppo la mia innata voglia di stare sui campi a discapito di una forma fisica indegna, mi ha portato a diventare membro (con scarsi risultati) proprio di una squadra di Touch Rugby che partecipava al torneo. E lì ho compreso ancora una volta quanto i concetti di promozione e sviluppo siano lontani anni luce dalla strategia di diffusione del nostro sport messa in atto dalla FIR.
Trattandosi di una disciplina non competitiva e senza un campionato nazionale di riferimento, siamo arrivati alla fase finale senza alcun principio logico. Si, in teoria chi vinceva la classifica del proprio comitato regionale partecipava, ma poi non è andata proprio così.
Andiamo a vedere quindi come l’evento è stato organizzato: se deve essere una festa del rugby, al diavolo la burocrazia, chissenfrega delle classifiche, divertiamoci!
Ecco lo svolgimento.
Il torneo a 10 squadre (quindi se è rappresentativo di tutte le regioni avremmo dovuto essere molti di più. Evidentemente il touch non è ancora diffuso come dovrebbe…) è stato giocato in una struttura come quella della Cittadella di Parma tanto bella quanto vuota. Nessuna forma di coinvolgimento delle scuole del territorio, degli studenti universitari, non un angolo musica, un food truck, nulla. Bravissimi i ragazzi della club house le Tre Viole e che Dio li benedica perchè erano l’unico conforto.
Sia chiaro, nessuno si aspetta che dieci squadre di rugby al tocco possano scaldare il cuore dei tifosi parmigiani. A vedere le Zebre ci vanno in 4 gatti anche quando arriva Munster, Leinster o Cardiff, figuriamoci se era plausibile un pubblico massiccio a vedere la finale del campionato italiano di acchiappino tra scapoli e ammogliati. No, nessuno si aspettava del pubblico. Ciò che mi aspettavo insieme al mio gruppo di amici era un’altra cosa.
Vista la natura promozionale del Touch, credevo che fosse interesse della FIR quello di invitare e coinvolgere tutti i portatori di interesse del territorio che rispondevano al profilo di un potenziale partecipante al Touch Rugby Day. Appunto, studenti e studentesse, ex giocatori e giocatrici. O anche, volendo azzardare, aziende interessate a farlo diventare uno strumento di team building. Insomma: persone. Persone che potessero toccare la palla ovale con mano.
Niente di tutto questo, solo un torneino diviso in due gironi all’italiana, svolto in una landa desolata, sotto i 40 gradi umidi e per nulla piacevoli della pianura padana.
Ah, vista la natura promozionale del Touch, credevo che fosse ulteriore interesse della FIR correggere il tiro per la stagione 2022/23. Magari con un calendario che sfrutta i mesi di settembre, ottobre per fare proselitismo e quelli di novembre per affiancare il rugby al tocco ai test match della nazionale. Invece tutto tace e si prospetta un 2022/23 ancora una volta gestito all’amatriciana.
Tornando sul torneo di Parma, penserete voi che almeno sarà stato un momento di confronto divertente ed equilibrato. Vi dico subito che no, non è stato nemmeno quello.
Alla fine ha vinto il Pesaro Rugby, squadra militante nel campionato di Serie A (con i giocatori di serie A in formazione) che ha affrontato gruppi di neofiti o di ex giocatori tesserati esclusivamente per l’attività amatoriale. E anche su questo si potrebbe aprire un capitolo: ha senso organizzare una finale del campionato di Touch quando per gran parte della stagione si è giocato senza classifiche e risultati? Ha senso mettere dei limiti di partecipazione in uno sport di sua natura inclusivo ( si poteva accedere solo con liste di atleti dai 18 ai 42 anni) comunicando la soglia di età quando manca un mese all’evento? Ha senso che questo torneo venga vinto da un gruppo di agonisti preparati che militano nella seconda serie nazionale?
La risposta datela voi.
E allora le considerazioni finali. Ho concluso il week end di Parma dormendo nell’Ostello vicino allo stadio insieme alla mia squadra. Una squadra che è bene ricordarlo, era composta da ex giocatori, neofiti, fidanzati e fidanzate. Un allegro gruppo vacanziero che si trastulla, mangia e beve con una mano e con l’altra tiene la palla ovale. Niente di più.
Beh, proprio l’Ostello mi ha dato la conferma di quanto ancora gli organi di governance del nostro rugby debbano lavorare sodo sui loro colleghi del reparto operativo per essere credibili agli occhi dei tesserati.
Quella struttura ricettiva, l’Ostello di Parma, era stata fino a pochi giorni prima l’alloggio dei ragazzi dell’Accademia Ivan Francescato. Un gruppo di giovani talenti che si era trovato in fretta e furia a trasferirsi da Remedello a Parma per ottemperare alla riforma delle Accademie.
Nei corridoi abbiamo trovato migliaia di euro di integratori incustoditi, materiale ufficiale FIR Macron sporco, incustodito anch’esso, alla mercé di chiunque. Le camere avevano ancora le tabelle nutrizionali con i nomi, i cognomi e i dati sensibili dei giocatori. Insomma, un clima da rompete le righe che sapeva di sciatto, non curato, approssimativo.
Bisogna essere devoti al Dio del Rugby per accettare che i professionisti del nostro rugby lavorino così. Provate a estendere il fotogramma di ciò che abbiamo visto nell’Ostello e ci troverete l’immagine decadente del nostro rugby.