Too small a chi? – Heinrich Brussow

Il quarto di finale mondiale fra Sudafrica e Australia del 9 ottobre 2011 è stata l’ultima vera, consistente apparizione in maglia Springboks di Heinrich Brussow. Il flanker originario di Bloemfontein ritirato nel 2019 può tornare di attualità oggi, esattamente dieci anni dopo aver concluso in anticipo la carriera internazionale, e soprattutto dodici anni dopo il suo ingresso trionfale nella storia dei Lions Tour.

Quel momento in cui Martyn Williams viene alzato da terra e scosso come un tappeto impolverato è un piccolo manifesto riassuntivo del Sudafrica di Pieter De Villiers: una squadra ruvida, arrogante e dominante. Proprio come Brussow, terza linea classe 1986, delicato quanto un boscaiolo a tagliare il sushi.

Il battagliero flanker dei Cheetahs entrò letteralmente a gamba tesa in una serie già di per se molto cruenta, rinfrescando un ruolo, quello del fetcher (ma chiamatelo anche Grillotalpa o Gratteur, a seconda dell’idioma che preferite) che è sempre di moda perchè di moda non lo è mai stato. Un po’ come lo smanicato di Armani o il sandalo alla tedesca con i calzini di spugna.

Nel trittico dei test fra Boks e Lions mise in luce quelle caratteristiche che poi ne hanno contraddistinto e segnato la carriera, diventando il giocatore più piccolo e al contempo più influente del pack sudafricano. Brussow infatti è stato un vero e proprio maestro del breakdown, di quelli che amano infilarsi nella contesa mettendoci la testa e una miscela esplosiva di forza, tecnica e astuzia che consente alla palla di finire dalla parte giusta. Inoltre il ragazzo, 180 cm per un centinaio di kg, era pure forte con la palla in mano, abilissimo nel partire da fermo e andare in percussione con una dose di potenza molto fastidiosa per qualsiasi difensore.

Una supremazia agonistica in controtendenza con l’ossessione, tutta sudafricana, che vuole le terze linee modellate dallo scalpello di Michelangelo Buonarroti ed educate con la stessa umanità attraverso cui il tenente Kurtz teneva in scacco il villaggio dei dannati di Apocalypse Now.

Il Brussow che scompigliò le gerarchie dei Boks stava mettendo in discussione dei dogmi incontestabili, unendosi ad una generazione di fenomeni turbocompressi per cui il grande pubblico ha sempre empatizzato. La terza linea bassa e tarchiata, quella che si conquista il palcoscenico senza l’ausilio di madre natura, alla fine va detto, entusiasma un po’ tutti.

Chi non ha goduto nel vedere le scorribande di Phil Waugh o i placcaggi di Simone Favaro o ancora il tempismo in fase di turn over di David Pocock? Facile fare il rugby alla sudafricana quando hai le misure (e lo shaker di proteine) di Pierre Spies o Bakkies Botha no? Un po’ meno facile giganteggiare quando le misure di peso e altezza sono da uomo più o meno normo dotato.

Phil Waugh e George Smith, due giganti della terza linea australiana racchiusi in un metro e ottanta scarso. (Photo by Nick Laham/Getty Images)

Solo che avere in squadra questo tipo di giocatore è sempre problematico. In primis perché schierare in terza linea giocatori “corti” toglie di default opzioni in rimessa laterale. E poi perché esiste una lunga schiera di coach convinti che sia impossibile conciliare le qualità tecniche con le doti neuromuscolari in un corpo che misura 180 cm scarsi.

Probabilmente nel 2021 sarebbero in tanti a invocare un mastino come Brussow nel bollente catino dei raggruppamenti internazionali. Eppure, proprio quando il suo percorso verso l’altissimo livello doveva spiccare il volo, fra i tanti ‘fetcher lover’ , non c’era l’unica persona che contava in quel momento: Heyneke Meyer.

L’ex coach del Sudafrica lo ha sostanzialmente snobbato, credendolo troppo piccolo per il suo standard di selezione, costringendo così il torello di Bloemfontein ad emigrare verso altri lidi e chiudendo di fatto il conteggio delle presenze internazionali a 23 caps. Troppo pochi per un atleta così iconico.

La sua carriera è trascorsa velocemente fra Cheethas, NTT Docomo Red Hurricanes e Northampton Saints, ma è piuttosto evidente che gli infortuni ( due rotture del crociato in 8 anni) così come le scelte tecniche lo abbiano frenato in quella che poteva essere un’ascesa memorabile. Già, gli infortuni. Un capitolo che riguarda da vicino i flanker di questo livello, sempre esposti alle collisioni più dure, ai contatti più pericolosi e quindi facilmente sacrificabili sull’altare del professionsimo.

Più punti di sutura che Caps?

I tifosi della Rainbow Nation però non lo hanno mai dimenticato, anzi, serpeggia chiaramente la convinzione che potesse essere molto più di un semplice Springbok di passaggio. Le parole dell’ex fischietto internazionale Jonathan Kaplan, uno che conosce da vicino l’impatto dei fetcher sull’interpretazione del regolamento,  racchiudono tutto il pensiero degli Heinrich nostalgici: “Sono stato un grande fan di Brussow. Non importava contro chi stava giocando, aveva il cuore di un leone. Penso che sia stato un grande giocatore e che avrebbe potuto e dovuto avere più presenze,  anche in un’epoca in cui la percezione sulle taglie dei giocatori era diversa”.

Brussow ha abbandonato il palcoscenico professionistico nella semi indifferenza generale, salutando Northampton nel 2019 senza grandi acuti o prestazioni rimarchevoli, lasciando comunque un segno indelebile nella storia del rugby contemporaneo. E Adesso, con il tour dei Lions che si appresta ad entrare nel vivo e con una serie di interrogativi sugli assetti tattici delle squadre, viene da chiedersi: chi sarà il prossimo guastatore pronto a fare il diavolo a quattro in ogni fase del gioco?

Sarà forse quel filibustiere dei bassifondi di Edimburgo, al secolo Hamish Watson, a riscrivere gli equilibri della contesa?