Dan Carter si è ritirato.
Indiscutibilmente uno dei migliori giocatori di sempre, si contende con un manipolo di colleghi, quasi tutti connazionali, il titolo del più grande di sempre nel gioco del college di Rugby.
I officially retire from professional rugby today. A sport I’ve played 32 years which has helped shape me into the person I am today. I can’t thank everyone who has played a part in my journey enough, particularly you, the fans. Rugby will always be a part of my life. Thank you. pic.twitter.com/HTJl85ZcRB
— Dan Carter (@DanCarter) February 20, 2021
Faccia pulita, pubblicità delle mutande, un paio di mondiali, diversi TriNations, un mazzetto di titoli per club (5 NPC, 3 Super Rugby, 2 Boucliers de Brennus), lo smantellamento dei Lions di Clive Woodward nel 2005, con il sir che da quella volta di rugby chiacchiera un sacco, ma non ne prende dritta mezza.
Un paio di autobiografie, infiniti video di highlights su YouTube e un documentario, Dan Carter – a perfect 10, che ripercorre la sua carriera alla ricerca di un arco narrativo intrigante.
Missione fallita.
Non tanto per la qualità del documentario di per sé, ma perché quello che è forse il miglior 10 di sempre è anche un personaggio incredibilmente noioso.
Okay, fenomeno assoluto: un giocatore semplicemente sublime, capace praticamente di tutto, con un’influenza decisiva su ogni squadra con la quale ha giocato e non solo dentro il rettangolo di gioco. Ha dimostrato uno strapotere totale in diverse fasi della propria carriera: i già citati Lions, nel triennio precedente la Rugby World Cup del 2011, e poi a quella del 2015, nella quale ha voluto anche togliersi lo sfizio di completare l’en plein segnando un paio di inusuali drop (uno in semifinale e uno in finale) e di piazzare l’ultima trasformazione della sua carriera internazionale con il piede sbagliato.
Oltre agli alti ha avuto bassi, sia in campo che fuori: la sconfitta del 2007, l’infortunio a Perpignan, l’infortunio durante la RWC 2011, il fermo per guida in stato di ebbrezza a Parigi.
Il documentario sulla Rugby World Cup 2011 vinto dagli All Blacks
In più, Carter è un ragazzo di campagna che grazie al suo talento si è trasformato in una star globale.
Insomma, gli ingredienti per costruire una storia potrebbero anche esserci, ma per scelta o per carattere, quella storia finisce per essere così pulita e lineare da diventare monocorde, soprattutto se comparata a quella di altri grandissimi.
Lo testimonia anche il suo pezzo da sbadigli su The Player’s Tribune, pieno di discrete ovvietà e stereotipi triti e ritriti.
Jonah Lomu aveva una storia familiare disastrata alle spalle, un gioventù difficile e il riscatto attraverso il rugby, oltre ovviamente all’essere stato l’anello di congiunzione fra il rugby di un tempo e quello della modernità.
Richie McCaw cattura con il suo carisma quasi mistico, lo stoicismo della sua icona, è l’eroe nel mezzo del fuoco della battaglia su cui gli avversari si accaniscono, e lui resiste.
Jonny Wilkinson è la perfezione tormentata, la pulsione interiore al limite del morboso, forse oltre il confine della patologia. L’avventura di uno che ha vinto tutto eppure ha dovuto imparare a convivere con un’inquietudine interiore.
Dan Carter è stato solo una noiosa storia di gloria e perfezione.