Italia si, Italia no, Italia bum

Ci risiamo. Il ritornello che recita “Italia fuori dal Sei Nazioni” si arricchisce di un nuovo capitolo. Il Times, autorevole giornale britannico, proprio ieri non ha lesinato critiche circa la nostra presenza nel massimo torneo di rugby continentale. Anzi, senza andare troppo per il sottile ha titolato l’editoriale con un eloquente Keeping Italy in Six Nations is only good for the money men.

Ormai è un tema che ciclicamente torna sulle colonne dei media anglosassoni, anche se un tono così perentorio non ha precedenti. Lo spunto di Stuart Barnes nella sostanza non è nuovo. C’è chi propone un barrage con la prima classificata del Sei Nazioni B, come non mancano i nostalgici che avanzano l’idea di un ritorno al classico Cinque Nazioni, estinto ormai da vent’anni. La firma del Times spinge per la seconda opzione.

Ad essere sinceri i numeri degli azzurri tutto raccontano tranne che di un rinnovato feeling con la vittoria. E’ una storia vecchia e la conosciamo tutti. Però il ragionamento che c’è dietro questa ennesima stoccata è poco calibrato nei tempi e nei modi.

Intanto perché parlarne oggi ha veramente poco senso. Il Sei Nazioni 2020 è un torneo non valutabile perché non è concluso. Magari non sarebbe cambiata la classifica, ma chi ci assicura che quando le squadre potranno riprendere a giocare ci troveremo di fronte ad uno scenario uguale o contrario a quello odierno?

Lo stop imposto dal Covid assomiglia tanto all’ improvvisa chiusura dei rubinetti per un gruppo di fedeli alcolisti. Adesso sono tutti in astinenza, ma chi può dire se quando si potrà tornare a bere gli effetti saranno gli stessi? A qualcuno il lungo periodo di lontananza potrebbe dare eccessivamente alla testa. Quindi occhio, perchè elementi cruciali come le fasi di conquista dove noi scontiamo un gap ormai pluriennale, potrebbero essere ridisegnati in toto. Forse condizionando al ribasso lo strapotere di anglosassoni e francesi.

L’incertezza sul futuro non cancella il passato. Questo è vero. Anche qui in realtà ci sarebbe da obiettare. Se il Sei Nazioni dovesse abbandonare il format attuale che ne sarebbe della nazionale italiana femminile? E dell’under 20? Qualche passo significativo nei due tornei paralleli è stato fatto. E una squadra giovanile che compete quasi sempre alla pari con le big europee potrebbe essere una fucina di talento da non sottovalutare. Per non parlare delle ragazze di Andrea Di Giandomenico che ormai sono una solida realtà del rugby internazionale.

Andando in ordine sparso emergono altri dubbi sulle tesi del Times. Ad esempio non è certo trascurabile l’elemento politico che ha visto Bill Beaumont riconfermarsi a Presidente di World Rugby. Una vittoria arrivata anche grazie ai voti dell’Italia. Forse non sarà un metro di valutazione sulle performance di Bigi & co., ma poco importa. Il boss del rugby mondiale nel pieno del suo operato non può considerare solo i risultati delle singole partite. Le dinamiche di do ut des fra organi di governo influiscono inesorabilmente sugli sviluppi organizzativi del torneo.

In ogni caso il Sei Nazioni è una kermesse che poggia sulle decisioni di un board privato. Tornare ad una struttura a cinque squadre sarebbe un brusco e poco probabile dietrofront. Che ne sarebbe del tanto sbandierato progetto di un rugby sempre più integrato fra tier 1 e tier 2? Di una eventuale epurazione italiana a favore di Georgia, Romania o Germania poi nemmeno a parlarne. Seppur stuzzicante, stiamo parlando di una ipotesi che poggia su fondamenta di pasta frolla. Se Inghilterra, Scozia, Galles, Irlanda e Francia ogni anno compiono due passi in avanti, noi avanziamo di un passo alla volta. Ad essere realisti Georgia, Romania e Germania ne compiono mezzo. Barnes sembra dimenticarlo.

Tutto questo non toglie che l’Italia deve fare di più. Molto di più. Deve vincere per fugare i dubbi e zittire le polemiche. Anzi, deve ritrovare il coraggio di concorrere. Perché se il rugby è uno sport che difficilmente ribalta i suoi equilibri, è anche uno sport che si appassiona per le sfide ad alto tasso di equilibrio.

Nessuno chiede agli azzurri somiglianti ad un un pugile un po’ suonato di trasformarsi seduta stante in un novello Muhammad Alì. Basterebbe trovare quello spirito che aveva Rocky Balboa quando arrivò al quindicesimo round con Apollo Creed. Sofferenza, botte, orgoglio e sconfitte come preludio ad una nuova era di ritrovata competitività. Tutto ciò non è impossibile. Abbiamo una generazione di giovani che è lì, pronta a contraddire la penna velenosa di Stuart Barnes. E quando succederà sarà una goduria ripescare quel rovente articolo datato 10 maggio 2020.