La chiusura del cerchio è vicina. Quarantasei partite giocate dal 20 settembre ad oggi e 160 minuti rimasti per decidere l’ordine delle migliori quattro squadre al mondo. Le due semifinali del week end scorso hanno decretato che la Web Ellis Cup finirà nelle mani dell’Inghilterra o del Sudafrica. In semifinale abbiamo assistito a due partite che hanno espresso un pathos diverso, ma che necessitano di essere sviscerate per capire cosa aspettarci sabato 2 novembre.
Una cosa al momento è già scritta. L’ultimo round di Giappone 2019 sarà condizionato dalle menti illuminate di due coach riconosciuti a livello internazionale come i migliori condottieri del rugby contemporaneo. Rassie Erasmus ed Eddie Jones. Due che hanno preso in consegna le rispettive squadre attanagliate da una profonda crisi di identità e le hanno trasformate in squadre vincenti.
In attesa di scoprire chi vincerà il remake di Francia 2007, avanti con il pagellone. Con un occhio puntato sulla finale s’intende.
PROMOSSI
La tribù degli stregoni: Eddie Jones e John Mitchell.
Agli All Blacks va dato un merito. Il dominio incontrastato nell’arco di dieci anni ha prodotto un pool di squadre pronte a tutto pur di batterli. L’asticella l’hanno alzata loro e il miglioramento globale del livello tecnico dei competitors va contestualizzato facendo questa doverosa premessa. Quando pensiamo ad Eddie Jones il pensiero va a lui, in piedi davanti allo specchio, magari con l’immancabile bottiglietta d’acqua, che pensa a come diventare il miglior allenatore del mondo della squadra più forte del mondo. Su questa ambizione la nazionale inglese ha costruito l’impalcatura di un piano strategico perfetto. Stare davanti nel punteggio, monopolizzare le fonti del gioco, dominare fisicamente l’avversario (quasi ai limiti dell’intimidazione) e ridurre al minimo la percentuale di errori. Così gli All Blacks non hanno potuto usufruire di palloni di recupero e le velleità neuromuscolari dei loro velocisti sono state azzerate. Dietro questa vittoria c’è un management che ha in Jones e Mitchell due nocchieri di altissima levatura. Detto del coach australiano è necessario parlare anche di John Mitchell che degli All Blacks fu allenatore nel biennio 2001/2003. Nella terra dei Kiwi in pochi lo ricordano con affetto, vuoi per l’insuccesso mondiale alla RWC d’Australia, vuoi per una metodologia di lavoro poco affine ai compromessi. Sabato l’ex coach degli USA ha compiuto il proprio capolavoro, regalandoci una difesa aggressiva, disciplinata e puntuale per ottanta minuti. Certo, con una squadra così tirata a lucido fisicamente è più facile lavorare sull’efficacia del muro difensivo, ma vogliamo ricordare che se non fosse stato per la meta di rapina di Savea a quest’ora parleremmo di una Nuova Zelanda sconfitta con zero punti in saccoccia.
Troppo sudafricani per essere veri: Pieter Steph Du Toit e Damien De Allende. Passata la fase a gironi Rassie Erasmus ha deciso di riabbracciare uno stile di gioco in cui non c’è spazio per i sofismi. In questa dimensione di assoluta concretezza vanno a nozze due atleti che in questo momento sono in grado di sfoderare una fisicità straripante. Volete un centro incursore che placca come una terza linea e spinge sulle gambe ogni volta che va a contatto? De Allende. Preferite un flanker che vi contesta ogni pallone riproponendosi costantemente in attacco? Du Toit. Se la proposta offensiva dei Boks contro il Galles è stata poco entusiasmante, almeno ci siamo goduti due esemplari purissimi di rugby sudafricano. E siamo certi che saranno loro due gli osservati speciali del reparto guastatori inglese formato da Curry, Vunipola e Underhill.
La differenza intelligente di chi usa più il fisico che i muscoli. Una delle ragioni per cui il XV della rosa fallì il mondiale del 2015 fu il suo irrinunciabile principio di autoconservazione. Della serie “siamo inglesi, siamo grossi, siamo cattivi e le partite le vinciamo così. Punto.”. Peccato che non piazzare il penalty del pareggio con il Galles per una insensata dimostrazione di forza all’avversario gli costò l’eliminazione dalla RWC e la relativa gogna mediatica. Il game plan attuale di Eddie Jones ha enfatizzato l’utilizzo di alcuni giocatori che nell’immaginario collettivo rappresentano ancora una volta i panzer utili solo ad un rugby di collisione. Invece proprio i fratelli Vunipola, Jamie George, Courtney Lawes, Kyle Sinckler sono le pedine che più di tutti hanno fatto il salto di qualità durante la reggenza del monarca australiano. Quando non vanno a contatto utilizzano le mani facendolo sempre con grande sensibilità, costruendo un reticolo di passaggi, raddoppi e linee di corsa che alla fine fanno più male di una percussione a testa bassa.
La gestione degli infortuni e dei dualismi. Portare una squadra in fondo ad un mondiale senza defezioni è un’impresa tanto difficile quanto è difficile vincerlo. E’ pur vero che gli inglesi in finale dovranno fare a meno di Willi Heinz, ma a parte il mediano di riserva tutti i giocatori sono arrivati in Giappone forti di una condizione eccellente. Chiedete al Galles cosa significhi raggiungere la semifinale di un torneo lungo 50 giorni falcidiati dagli infortuni e vi ritroverete davanti agli occhi il ghigno di Gatland al massimo della sua inquietudine. Lo staff è stato perfetto nelle gestione dell’area fisica, scegliendo i giocatori giusti al momento giusto. Si è fatto un gran parlare del dualismo fra Ford e Farrell, nemmeno fossero Mazzola e Rivera o Totti e Del Piero. Jones ha risolto tutto tagliando la testa al toro: entrambi sono giocatori di qualità e non esiste ragione per cui non possano convivere. In generale fino adesso le scelte lo hanno premiato in cinque partite su cinque. E’ giusto un triangolo allargato che predilige la velocità di May e Watson alla fisicità di Nowell e Cokanasiga. E’ giusto George come titolare e leader al posto di un Hartley che avrebbe sicuramente mal accettato lo status di riserva. E’ il rugby giocato in 23 giocatori, insomma il rugby moderno. Quello di Eddie Jones.
Maro Itoje. Se avete ancora parole per descrivere la sua prestazione fatelo voi.
I dragoni che non smettono mai di sputare fuoco: Leigh Halfpenny & Alun Wyn Jones: Il primo è stato riesumato da un letargo lungo e difficile, mentre il secondo è un leader a cui va tributato rispetto senza indugi. Lo ha dimostrato quando il Galles ha pareggiato i conti chiedendo la mischia nonostante avesse la possibilità di marcare tre punti facili. Loro due non si sono mai arresi e pur rientrando nel canovaccio conservativo architettato da Gatland per stare a galla contro il Sudafrica, i due senatori lo hanno ripagato facendo poche cose e facendole anche bene. Il terzo posto mondiale sarebbe la soddisfazione che mitigherebbe lo stato di delusione in cui inevitabilmente è caduta la terra dei dragoni rossi.
BOCCIATI
Aaron Smith & Richie Mo’unga ovvero quando la mediana ha finito i conigli nel cilindro. Incensato una settimana prima, bastonato una settimana dopo. Breve storia triste di Aaron Smith che passa da una prestazione sensazionale contro l’Irlanda ad una confusionaria contro l’Inghilterra. Il suo compagno di reparto Mo’unga non fa meglio di lui e anzi, fatica moltissimo a creare incertezza nella granitica linea difensiva inglese. Senza una mischia dominante e con pochissimi palloni di qualità forse anche Houdinì e il Mago Silvan avrebbero trovato delle difficoltà. In ogni caso loro sono i mediani degli All Blacks e quindi diventa logico aspettarsi sempre un colpo ad effetto. A Yokohama però la giocata risolutrice non è mai arrivata e la luce è stata accesa dai ragazzi in maglia bianca.
Warren Gatland. Una bocciatura che va ben oltre quella del campo. Giudicare negativa la performance del suo Galles in semifinale infatti sarebbe sbagliato e profondamente ingiusto. Il buon Warren è stato bocciato dalla federazione neozelandese che nella giornata di lunedì ha sgomberato il campo da ogni ipotesi di approdo sulla panchina degli All Blacks nel prossimo futuro. È impossibile allenare sia gli All Blacks che i Lions per un periodo di quattro anni” , ha dichiarato Steve Tew, amministratore delegato della federazione neozelandese. A dire il vero Gatland non ha mai esternato pubblicamente intenzioni o desideri che facessero presagire un suo interessamento. Oggi comunque sappiamo con certezza che il suo nome non rientra nella ristretta rosa dei quattro candidati che la NZ Rugby Union valuterà per trovare il successore di Steve Hansen. Dunque l’unico modo per lasciare un ricordo indelebile nella terra dei Kiwi è batterli nella finale per il terzo posto di venerdì.
Nepo Laulala. Il pilone dei Chiefs si ricorderà a lungo della semifinale come la partita in cui tutti si saranno chiesti: dov’è adesso Owen Franks? Concede una penalità delittuosa in mischia chiusa e non riesce mai a imporsi fisicamente sui mastini inglesi. Quanto basta per finire tra i bocciati.
Andrew Gourdie e l’incapacità di restare in silenzio. La domanda del cronista del sito neozelandese newshub è diventata virale tanto quanto la risposta piccata di Hansen. Partendo dal presupposto che ogni domanda ha il diritto di essere posta, forse possiamo affermare altrettanto candidamente che questionare sulla “giusta mentalità” ( “disrespectful question” minuto 11.20 ) da parte degli All Blacks in occasione di una semifinale mondiale non è una grande mossa. Steve Hansen ha comprensibilmente palesato tutta la sua frustrazione al malcapitato giornalista, ma è indiscutibile che non sia stata la mancanza di fame agonistica a segnare il risultato del match.
E adesso? Pronostico per la finalissima? Per quel poco che abbiamo imparato sulle dinamiche del rugby mondiale è impossibile pensare ad un Sudafrica così minimalista da finire agilmente nel tritacarne inglese. Sarà uno scontro difficilissimo e più equilibrato di quanto l’onda emotiva proveniente dalle semifinali possa far immaginare.