Arrivati alla sesta sconfitta in otto partite gli All Blacks sembrano tutto tranne che invincibili. Questa nuova normalità della Nuova Zelanda ha minato le mie certezze di una vita. Sia chiaro, dopo aver scoperto che Brenda Walsh non sarebbe mai rientrata a Beverly Hills da Parigi, dopo che l’Uomo Tigre viene smascherato in diretta TV davanti agli occhi di Ruriko, la mia visione nei confronti del mondo era già abbastanza disincantata.
Però, cè un però: da quando seguo il rugby internazionale con attivo interesse, cioè dal finire degli anni 90, non ho memoria di una tale crisi di risultati, gioco e identità da parte dei tuttineri.
Il ciclo di Ian Foster vive di gran lunga il suo momento peggiore. Le cause sono tantissime, tutte più o meno plausibili. Il pessimo stato di forma di alcuni giocatori cardine, la mancanza di un campionato sovranazionale sufficientemente competitivo, le scelte azzardate in fase di composizione dello staff, l’impossibilità di delegare la gestione dei momenti difficili alla leadership del capitano.
(l’incoraggiamento dello sponsor Steinlager dopo la sconfitta con il Sudafrica)
Visualizza questo post su Instagram
Diciamocelo sinceramente, Sam Cane e Ian Foster in conferenza stampa fanno tenerezza. Neanche loro avrebbero immaginato di essere a questo punto quando manca un anno esatto alla Coppa del Mondo. E anche se il tempo per risolvere i problemi di campo effettivamente c’è, bisogna fare attenzione a non sottovalutare il contesto in cui questi All Blacks si muovono. Che non è quello del 2011 e nemmeno quello del 2015. A cavallo di quelle due edizioni della Rugby World Cup la Nuova Zelanda era senza dubbio la squadra regina. Così forte e bella che tutto il mondo del rugby ha fatto a gara per spodestarla dal trono più alto del globo.
L’asticella della prestazione degli avversari si è alzata anche e soprattutto per merito degli stessi All Blacks. Batterli significava costruire la partita perfetta. Quella in cui le infinite risorse tecniche di cui disponevano i neozelandesi venivano soffocate grazie ad una sapiente analisi preventiva dei loro pochissimi punti deboli. E anche quando li studiavi al meglio, loro erano pronti a risolvere ogni situazione, a diventare rapidamente camaleontici, determinati, sicuri di vincere.
(Nel video sottostante, la gestione da manuale dei minuti finali di una gara che sembrava persa)
Poi, il rugby come succede a tanti sport, ha iniziato a sfruttare i reali benefici della globalizzazione. Le federazioni maggiori hanno iniziato a inserire sempre più spesso dei coach di qualità, provenienti da paesi esteri o dalla stessa Nuova Zelanda. I project player innalzano il livello delle rose, i piani di gioco si fanno sempre più precisi, capillari, ossessivi.
Il regno degli All Blacks non poteva che essere messo a dura prova da questo ‘bombardamento incrociato’, una strategia messa in atto da tutti coloro che hanno perseguito per anni quel tipo di perfezione stilistica e sostanziale.
Fino alla RWC del 2019 l’aurea di imbattibilità dei Kiwi ha continuato ad esistere. Spinti anche dalla necessità di rendere orgoglioso un pubblico esigente, gli All Blacks hanno mantenuto la barra dritta. D’altronde, come si evince nel bel documentario All or Nothing, quale altro Paese è in grado di mettere una tale pressione alla sua squadra nazionale? Quale altro Paese è stato capace di esprimere così a lungo il team più forte del Mondo anche quando non vince la Coppa del Mondo?
Il match di semifinale della RWC 2019, quello in cui l’Inghilterra mette apposto tutte le caselle di cui parlavo sopra, è un primo segnale di cedimento. La Nuova Zelanda viene battuta sulle sue certezze quando manca un passo dalla finalissima, di conseguenza la federazione dà l’addio a Steve Hansen, saluta un pool di fenomeni e si organizza con il nuovo corso targato Foster. L’assistente dalla faccia buona e lo sguardo rassicurante.
Un passaggio di consegne nel segno della continuità che nessuno avrebbe potuto immaginare come un flop.
Di solito, cambiare la gestione tecnica è un momento difficile per tutti. Tranne che per gli All Blacks, s’intende. Tanta è la concorrenza per una maglia da titolare che dalle parti di Wellington hanno potuto permettersi di tenere Sonny Bill Williams in panchina e utilizzarlo come impact player, ma anche di pensionare delle ire di Dio come Julian Savea, Joe Rokocoko, Cristian Cullen quando non avevano nemmeno 30 anni. Questo per dare la misura dell’abbondanza di talento a quelle latitudini.
E adesso? È tutto perduto?
Non posso essere io dalla mia comoda poltrona di chiacchierone digitale a saperlo. So che mi viene da piangere al solo pensiero di vedere tramontare una squadra che ai miei occhi è una vera e propria icona generazionale.
Premesso che quando si parla di rugby non si può fare a meno di parlare di Nuova Zelanda, diventa al contempo innegabile constatare che ad oggi lo scenario è brutalmente diverso rispetto al recente passato. Nella eterna lotta tra Emisferi, quello Nord ha iniziato a macinare risultati e soprattutto a sfoderare performance eclatanti. I competitor più accreditati, che dal mio punto di vista sono Francia e Sudafrica, possono godere di un sistema di gioco davvero efficace, entrambe molto abili nell’utilizzo della difesa come prima arma di attacco. Entrambe proiettate con grande vigore alla RWC.
E poi c’è quella debolezza evidente, quella fragilità inattesa che ha dato vita alla stesura di questo articolo. Vedere gli All Blacks che dominano in mischia chiusa e poi perdono un numero imprecisato di collisioni in mezzo al campo fa male al cuore. Il pallone che (sempre più spesso) non va tra i pali è quasi una coltellata. Lo smarrimento dei portatori di palla che devono suonare la carica quando mancano pochi minuti al fischio finale mi destabilizza. La facilità con cui l’Irlanda segna questa (splendida e ben architettata) meta mi toglie il sonno.
Mi faccio portavoce di un sentimento universale. Non siamo ancora pronti per dei mediocri All Blacks.