Il primo passo che faccio quando parto per una vacanza è la scelta di un libro. Questo succede perchè interpreto la parola vacanza partendo direttamente dalla sua etimologia: vacare essere vuoto, libero. Dunque, libero dal lavoro e dagli impegni obbligati ho anche il tempo per leggere in serenità. Uno spazio che durante l’anno è ridotto al lumicino.
L’Irlanda è terra di letterati importanti e potrebbe spingere alla ricerca di titoli suggestivi o almeno culturalmente più appetibili. Niente di tutto questo, mi sono fiondato sull’autobiografia di Alex Ferguson, l’unico coach del mondo capace di tenere insieme le specificità del Sei Nazioni all’interno del Manchester United: la grinta irlandese di Roy Keane, la creatività gallese di Ryan Giggs, l’estro tipicamente francese di Eric Cantona, la spavalderia inglese di David Beckham, l’improvvisazione italiana di Massimo Taibi e le palle scozzesi, quelle di Sir Alex appunto. Per fare un giro in un paese così dannatamente celtico mi sembrava un buon compromesso.
Messo il libro in valigia non avevo bisogno di altro se non di qualche vestito anti pioggia, della macchina fotografica, di un po’ di idee e della prenotazione per l’autonoleggio.
Ho viaggiato a maggio 2022 da est ad ovest dell’Isola di Smeraldo insieme a quella santa donna della Laura, compagna di vita e di sport.
Lei il rugby lo ha ereditato a causa mia, costretta a sorbirsi da tempo immemore tutti i pomeriggi del Sei Nazioni (quando non si va allo stadio, sempre 3 match su 3 incollati al divano), ma anche le disfatte delle italiane in Coppa, le partite degli Aironi su Dahlia TV, l’Italia che batte la Francia 22 a 21 vista in un Pub australiano di Valencia, i tornei di Minirugby, il Top 10 su YouTube, le partite giocate nell’infimo livello amatoriale italiano, le telecronache per le squadre della mia città e tutto ciò che di ovale c’è nelle nostre vite. Compresi gli amici e i parenti.
Alla fine si è dovuta rassegnare ed è diventata suo malgrado una giocatrice di Touch, molto più indiavolata e brava di me, in possesso di ottime skills e di una valida visione di gioco. La Laura non lo ammetterà mai, ma è una rugbista mancata.
Le nostre vacanze sono sempre così, itineranti, allegre. Apparteniamo ad una generazione pre digitale, cresciuta con i viaggi in treno, la guida Lonely Planet nello zaino e i beer pong in Ostello. Per noi è necessario osservare, conoscere, sbagliare strada, toccare con mano, poi, magari con calma, recensire, taggare o scattare un selfie.
La capitale
Dublino in questo ci è venuta subito in aiuto. Dublino puzza. Puzza di vita, di Meltin Pot, di cibo globalizzato, riprodotto e fritto in serie. Puzza di bassifondi, ma senza essere eccessivamente underground. Allo stesso tempo profuma di modernità, quella garantita dai giganti del web che in Irlanda ci hanno messo le tende per accaparrarsi una fiscalità migliore. Profuma di natura, quella del Phoenix Park. Un vero e proprio polmone verde dentro la città. Un parco bellissimo dove ad ogni angolo puoi trovare campi da rugby, hurling, calcio gaelico, tutti a libero accesso. Tutti frequentati da gruppi di ragazzi e ragazze che fanno sport. Tutti morbidissimi, rigogliosi e curati.
Mentre passeggiamo per i lunghi viali del parco, immersi nel silenzio, capiamo che il confronto con il verde pubblico e l’utilizzo che ne facciamo in Italia è impietoso.
Parentesi bucolica terminata: Torniamo al puzzo di vita.
Se cammini per Temple Bar e senti puzzo vuole dire che nei paraggi c’è un Pub, la vera opera d’arte della Capitale. Il Pub qui è un coacervo di socialità, un punto di riferimento culturale, un luogo in cui si intrecciano relazioni, affari e amori. Sempre al ritmo di ottima musica dal vivo.
Ad essere sincero di Dublino non c’è stato niente che mi abbia colpito così tanto da renderla ai miei occhi una città memorabile. Fatte le visite obbligate al Trinity College e alla Guinness Factory mi sono sentito in pace con i doveri del turista. Per carità, sono luoghi diversi, ma non cambierei mai la Old Library del Trinity con la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Non cambierei mai la Fabbrica della Guinness con una qualsiasi tenuta di vini nella bassa Maremma. Anche se va detto per onestà, la visita alla fabbrica della stout più famosa del mondo merita il costo del biglietto.
Dublino è stato l’inizio e la fine del viaggio, perchè l’idea di partenza era molto semplice: fare un classico Coast to Coast per godersi l’Irlanda il più possibile. 7 notti, 8 giorni, un buon lasso di tempo che comunque esclude la Northern Ireland e il suo epicentro carico di significati, Belfast.
Pazienza, ci torneremo.
Cork e la Red Army
Lasciata Dublino dopo aver capito che la palla ovale se vuoi la trovi un po’ ovunque, siamo andati a cercare il rugby vero, quello dal vivo. E allora la mappa indica Cork, la cosiddetta capitale intellettuale d’Irlanda. L’occasione è ghiotta, Munster gioca al Musgrave Park con i Cardiff Blues. È l’ultimo impegno prima del quarto di finale di Champions Cup, la squadra è sufficientemente carica di grandi nomi e l’avversario è di quelli che predilige un rugby espansivo. Sono sicuro che Laura apprezzerà una partita che si preannuncia movimentata. In più abbiamo una giornata intera per visitare gli anfratti della città.
Le premesse di quel venerdì non sono ottime. Tralasciando il fatto che la mattina della partenza ho spaccato lo specchietto retrovisore della Volkswagen Passat del sig. Martin Kavannagh (con relativi accidenti e moduli da compilare per l’assicurazione di Europcar), appena arrivati a Cork troviamo la spiegazione della scarsità dei posti letto: c’è il concerto di Ed Sheeran. Le vie di Cork sono invase di adolescenti, di venditori abusivi, ma anche di qualche simpatico ubriacone gallese giunto in terra d’Irlanda per il match della sera.
Se Dublino non mi ha colpito, Cork mi ha proprio lasciato indifferente. Escludendo un paio di bei banchi del pesce al Middleton Farmers Market, non sono stato capace di respirare quell’atmosfera cosmopolita che indicava la guida. Una notte da quelle parti è poco, ci mancherebbe. Però la sensazione è di essermi imbattuto in un luogo decaduto, in procinto di rialzarsi dopo un passato glorioso. La posizione privilegiata tra le colline e il mare la rende un centro strategico e sono sicuro che con un po’ più di tempo a disposizione sarei capace di tracciarne uno spaccato migliore.
Poco male, le ore 20.35 arrivano presto e il Musgrave Park è lì ad attenderci. Lo stadio di Cork è esattamente quello che mi aspettavo. Un luogo che unisce lo spirito amatoriale dei gestori, i Dolphins RFC, a l’identità professionistica della corazzata Munster. Una miscela perfetta.
I bagni sprigionano quel tipico aroma di urina il tanto che basta, la Club House è piena di foto d’epoca, il pavimento scricchiola, alla radio imperversano le one hit wonder dei favolosi anni 80, alla spina della birra stazionano dei signorotti grassottelli che danno l’impressione di essere parte integrante del luogo fin dalla nascita. Un po’ come quando Jack Nicholson in Shining sbuca nella foto di gruppo dell’Overlook Hotel data 1924. Soltanto che loro sono un po’ più larghi, diciamo in 16:9.
Al bar esterno che si occupa di vendere le cibarie, sono presenti solo cinque cose: Fish & Chips, Chips, Chips col formaggio, Tea, Milk & Tea. Qui il Poke condito con salmone e tofu non trova terreno fertile, per fortuna.
La struttura è divisa in due tribune centrali e due ‘standing’, cioè le due aree poste dietro i pali in cui si guarda la partita in piedi appoggiati ad una specie di ringhiera. È tutto molto vicino al campo, il clima è caldo, i tifosi hanno almeno un gadget del Munster a testa, incitano, bevono, si incazzano quando Conor Murray calcia nel box senza sfidare le guardie intorno al raggruppamento.
Accanto a noi c’è un terzetto composto da mamma, nonna e bambino fulvo, molto irish. La mamma è una bella donna, vestita di tutto punto, la nonna, ingioiellata e infeltrita, sembra celare un passato in cui è stata ancora più bella della figlia. Tutti e tre hanno in mano il match day programme, il cappello o la sciarpa del Munster. Tre generazioni di tifosi racchiuse in un abbraccio materno.
La partita è frizzante, Cardiff non è volato a Cork per fare la vittima sacrificale e a fine primo tempo qualcuno al Musgrave Park mugugna. Una sconfitta non sembra essere in preventivo, così Van Graan mette in campo Craig Casey e Joey Carbery. Il ritmo diventa indiavolato, le sportellate di Kleyn, Farrell e O’Mahony si fanno sentire. Munster vince, Cardiff, guidata da un super dinamico Tomos Williams, raccoglie molti applausi. E mentre i tifosi abbandonano lo stadio, dallo Standing si fa più chiaro e visibile il motto della squadra scritto a caratteri cubitali sui muri della tribuna piccola: “To the brave and faithful, nothing is impossible.” La Laura qui è costretta a fotografare.
La contea di Kerry, Dingle e il Sud Ovest
La gita a Cork è stata segnata dal rugby, un po’ come tutta la vacanza irlandese. Puoi provare a non considerarlo, ma lo sport con la palla ovale a quelle latitudini è una cosa seria, sembra quasi che ti segua. Per questo non ci stupisce il fatto che la Signora Beatrice Flannery, proprietaria dell’alberghetto che ci accoglie nella contea di Dingle, sia la mamma di un ex rugbista dell’Accademy di Munster, tale Nathan Flannery. I pali in legno e i palloni sgonfi che si trovano nel cortile della struttura suggeriscono che qualcuno in quella casa è cresciuto o sta crescendo a pane e rugby.
La Signora Flannery è una energica donna tuttofare. Insieme al marito gestisce il B&B, un pub e anche i tour alle Blasket Islands, una delle attrazioni che più mi interessavano prima della partenza.
Queste isole mi hanno affascinato fin da quando mi sono imbattuto su un annuncio web dedicato alla ricerca di un custode eremita per la stagione estiva. Le Blasket hanno tre piccoli cottage che si possono affittare a prezzi salatissimi, non c’è l’acqua calda, zero connessione internet e l’elettricità può svanire da un momento all’altro. I leoni marini se ne stanno belli panciuti sulle rive della spiaggia, la vegetazione è lussureggiante.
Nonostante la presenza di queste 3 stamberghe a noleggio, la sensazione di totale di isolamento è molto piacevole. Per chi soffre di misantropia acuta come me è un piccolo paradiso.
La zona del Kerry County (uno dei maggiori distretti di lingua gaelica del paese) è semplicemente bellissima. Alla base della vacanza non c’era un itinerario rigido, ma la volontà precisa di vivere l’autenticità d’Irlanda senza farsi troppo sedurre dalle aree urbane. Per questo, tutto ciò che si può trovare intorno a Dingle mi è piaciuto. Una penisola segnata da spiagge lunghe, ampie, popolate da surfisti temerari, coste sferzate dal vento freddo dell’Oceano. Piccoli villaggi di pescatori dove fermarsi per bere una stout e trangugiare un piatto di frutti di mare. Strade strette, allevamenti frequenti, lunghi cordoni litoranei e paesaggi mozzafiato.
Inizio a sentirmi molto più a mio agio. Se non fosse per i 14.90 € spesi per un pacchetto di Winston Blue, il soggiorno in loco sarebbe assolutamente da incorniciare.
Galway, il Connemara e il profondo Ovest
Tra l’alloggio di Ventry e Galway ci sono quasi 4 ore di macchina. Nel mezzo Limerick, il Thomond Park e Munster. La decisione è quella di non cedere alla tentazione di fermarsi per una liturgia rugbisitica e andare sparati verso i panorami del Connemara, non prima di aver tastato con mano il clima sociale della città più rappresentativa dell’ovest irlandese.
Galway è figa. Piccola, festosa e piena di attività commerciali dove è possibile gustare una gastronomia più che decente. Il nostro ostello è collocato tra un campo nomadi di Irish Travellers e la passeggiata marina di Salthill. Lo sbertucciamento dei palazzi intorno alla struttura contribuisce a mitigare quel clima fin troppo borghese che traspare dal centro città. È il luogo perfetto per impostare un’immersione totalizzante negli usi e i costumi locali, e soprattuto per girellare attivamente nella splendida regione del Connemara.
Se vi state chiedendo qualcosa sul Connacht, beh sappiate che questa zona è la meno rugbistica d’Irlanda. Qui il Calcio Gaelico è padrone assoluto della scena. I colori del Galway GAA sono gli stessi che si trovano sulle sciarpe appese nei Pub. I bambini vanno al parco con la maglia amaranto della loro squadra del cuore. E anche quando ci troviamo a dover mangiare obtorto collo in un fast food, l’unica catena disponibile è Supermac: proud sponsor of Galway GAA since 1991. Tutto riporta al calcio gaelico. Al massimo all’Hurling.
Gli sforzi di ‘ovalizzare’ Galway e dintorni però sono ben visibili. La strategia di marketing offline del Connacht è efficace, non è raro trovare esempi di cartellonistica ben fatta o simboli della squadra alle fermate dei bus, sulle auto, dentro i negozi. D’altronde stiamo parlando di una società che ha saputo cambiare pelle, passando in breve tempo dallo status di cenerentola della Celtic League a quello di squadra campione del Pro 12 nella stagione 2015/16. E anche oggi, nonostante un budget e una visibilità inferiore rispetto alle altre 3 province della IRFU, sono capaci di portare 8.000 spettatori allo Sportsground per un’ottavo di finale di Champions Cup.
Il rugby piace anche se non rappresenta la prima scelta tra gli sport. Il parco che sta tra il porticciolo cittadino e il pontile che conduce al faro è un luogo a libero accesso, dotato di pali per il rugby e il calcio gaelico, dove puoi trovare studenti universitari a fare touch, oppure una squadra femminile che si allena con grande agonismo. Tutto molto spontaneo, destrutturato e bello. Dannatamente bello.
Laura mi ricorda che siamo in Irlanda per fare i turisti avventurieri. Il momento di esplorare la regione del Connemara è arrivato.
Il mio ricordo migliore è tutto racchiuso tra le mura del Joyce’s Bar di Cleggan, nel Connemara appunto.
Cleggan è un villaggio di pescatori che secondo la guida può vantare un piccolo molo costruito nel 1822. Nient’altro. Il paesino è davvero piccolo, ma ha tutto ciò che serve per rimanere impresso nella mia memoria. È nel mezzo del nulla e quando ci arrivo trovo padre e figlio, entrambi coi capelli rossi, che sistemano le nasse per l’imminente pesca serale. Poi una coppia di anziani diffidenti che ci osserva dal giardinetto di casa e la bellezza di 4 pub. Il Joyce’s Bar è un triplo salto carpiato negli anni 70. Moquette sporca, bancone usurato, al centro della sala uno spazio per la pianola e le casse audio. La zuppa di granchio trangugiata insieme alla Guinness è pura poesia. Se dovessi scegliere un posto dove festeggiare il mio compleanno o anche il banchetto di nozze sceglierei il Joyce’s Bar.
Nel Connemara la natura selvaggia delle campagne si incastra perfettamente con i piccoli insediamenti umani, popolati perlopiù da persone che vivono in simbiosi con il territorio perchè da esso ne traggono i frutti.
Che si tratti di un trekking nei dintorni di Clifden, di un’ escursione in barca sotto le imponenti scogliere di Moher o di una lunga pedalata nelle viuzze dell’isola di Innis Oir, in questa regione si può trovare una bella fetta di tutti gli elementi principali che compongono la più pura essenza irlandese.
Dalle Isole Aran dobbiamo fare ritorno a Dublino per riprendere l’aereo che ci riporterà in Italia. Non prima di aver passato le 8 ore peggiori della nostra vita da Ashmere Lodge, un affittacamere uscito direttamente da una sceneggiatura venuta male di un film di Quentin Tarantino.
Finito il viaggio, ecco la mia top 10 di cose da fare, vedere, mangiare, annusare.
- Gustare Lobster & Guinness a Out of The Blue, Dingle
- Percorrere la Slea Head Drive con sotto il mare in tempesta
- Girare per uno degli innumerevoli Carrolls Gift Shop guardando tutto senza comprare nulla
- Ascoltare Linger dei Cranberries con un bicchiere di volgare Jameson Black Barrell in The Temple Bar
- Comprare una copia dell’Irish Times e goderne della pagina sul rugby
- Scroccare da baristi alticci una o più pinte al Gravity Bar della Guinness Factory
- Guardare delfini e balene che si palesano al largo delle Blasket
- Constatare la bellezza dei maglioni di Aran e poi inorridire sul prezzo
- Farsi una bella passeggiata nel quartiere Latino di Galway
- Sedersi sulla spiaggia ciottolosa di Innis Oir, scrutare l’orizzonte e pensare a come smettere di lavorare per stare in vacanza 11 mesi l’anno.