Riassumere l’anno che si sta per chiudere in poche parole non è facile. Il rugby, da qualsiasi latitudine lo si guardi, è stato condizionato fortemente dalla pandemia. Lo dicono i rinvii, gli stadi vuoti, le modifiche ai calendari e tutta una miriade di cose che non si raccontano nemmeno più da quanto sono diventate consuetudinarie.
Certo, ci sono i premi individuali, i Top XV, le analisi delle riviste specializzate. Tutte operazioni stimolanti che lasciamo a chi ha tempo e voglia di ricostruire in maniera scientifica il puzzle di questo anno travagliato.
Come spesso accade a questo blog cercherò di dare spazio alle impressioni maturate dagli occhi, dalla mente e dalla pancia.
Veterani allegri. Come giocare a rugby senza l’assillo della carta d’identità
Nel manifesto pubblicitario del Sei Nazioni realizzato dalla FIR campeggia la sagoma di Sergio Parisse. Il numero 8 del Tolone, oltre ad essere un probabilissimo cavallo di ritorno azzurro, è l’emblema di un gruppo esteso di giocatori internazionali stagionati che stanno continuando a macinare prestazioni rimarchevoli.
Il Sergio nazionale è in buona compagnia. Tanti atleti di alto profilo hanno recuperato energie durante lo stop del 2020 ed oggi continuano a giocare anche meglio di prima.
A partire da Augustin Creevy che va per i 37 anni, fa il titolare nei London Irish e ha realizzato 11 mete in 12 presenze. Jonathan Sexton, 36 primavere, è sempre lì, a ricordare alla stampa che smetterà di essere il faro dell’Irlanda solo quando il corpo e la mente non gli consentiranno di avere quella lucidità con cui a novembre ha orchestrato la vittoria sugli All Blacks. Duane Vermeulen, leader carismatico del pack sudafricano punta a ragione ad essere protagonista alla RWC 2023. Benjamin Urdapilleta ha realizzato il record di punti in una sola gara del Top 14 a 35 anni suonati. 33 punti per la precisione, visto che il mediano di apertura argentino sembra essere uno di quelli avvezzi a tener conto dei record. E poi il cavallo di ritorno Quade Cooper che a 33 anni ha trovato gli stimoli giusti per tornare coi fuochi d’artificio nell’arena del rugby che conta. Joe Tekori e Jerome Kaino, pluridecorati con il Tolosa galattico a 38 anni. Ah, ci sarebbe anche Mornè Steyn. 37 anni, una carriera zeppa di punti spesa fra Sudafrica e Francia che sembrava conclusa comunque in maniera gloriosa anche senza l’appendice finale. Il cecchino dei Bulls invece ha messo la parola fine alle velleità dei B&I Lions esattamente come fece 12 anni fa, ricordando a tutti che l’usato sicuro a volte può essere migliore del nuovo.
Infermerie piene
Capitolo infortuni. Se Mornè Steyn è arrivato fresco alla veneranda età dei 37 anche grazie ad uno stile di gioco, diciamo cauto, lo stesso non si può dire per quel gladiatore di Alun Wyn Jones che dopo anni di infinite battaglie inizia a subire l’onta del tempo che passa. E il 2021 che va a concludersi di certo non si ricorderà per un anno leggero sul tema infortuni. Sempre dall’attualità degli ultimi giorni arriva la notizia dello stop di Tommaso Castello. Il ragazzo ha alzato bandiera bianca dopo 3 anni di tentativi, terapie e speranze. Niente da fare per il forte centro delle Zebre che ha detto basta e va a rimpolpare La Rosa dei grandi infortunati azzurri. Un gruppetto di giocatori che in un modo o nell’altro hanno dovuto fermarsi di fronte a pesanti traumi. Nel 2021 abbiamo rinunciato al nostro ball carrier principale Jake Polledri, così come abbiamo dovuto guardare con sofferenza alla rottura del ginocchio di Marco Riccioni o alla lunga convalescenza di Steyn. Fuori dai confini italiani non è che vada meglio: Jack Willis, Leigh Halfpenny, RG Snyman solo per citare alcuni dei giocatori che dovranno passare gran parte del 2022 a recuperare da brutti infortuni.
Insomma, il tema è sempre caldo. Non abbiamo consultato le informazioni che possono confermare una incidenza maggiore o minore rispetto al 2020, ma è chiaro che le battaglie campali del rugby contemporaneo lasciano degli strascichi che non accennano a diminuire. Se poi ci mettiamo che a fine ottobre il Galles con una quindicina di infortunati ha affrontato gli All Blacks sostanzialmente in anticipo sulle date canoniche del calendario autunnale, si capisce che a volte la necessità di fare cassa (4 milioni di sterline in dote alla WRU) può diventare una minaccia per la salute dei giocatori.
The Show Must Go On cantavano i Queen. E così sia anche nel 2022.
I danè del Sol Levante
A proposito di soldi. Il 2021 è stato l’anno del rugby giapponese. Non della nazionale giapponese. Quella è venuta in Europa un po’ impreparata e alla fine ha preso più sganassoni che applausi. Facciamo riferimento al campionato domestico, diventato nel frattempo Japan Rugby League One, che raggruppa un bel mix di fenomeni mondiali in un nugolo di 24 squadre divise su 3 gironi. Nel 2021 si è giocato tanto e bene, offrendo spaccati di rugby ad alto contenuto tecnico un po’ in tutte le partite. Nel 2022 puntano a fare ancora meglio. Certo, a colpi di yen, con ingaggi stellari, inserendo nomi che hanno fatto la storia recente del rugby mondiale. Ma d’altronde non c’è modo migliore di fare qualità pagando la stessa qualità a peso d’oro.
Emisferi
A due anni di distanza da France 2023 l’interrogativo è sempre lo stesso. Il classico ritornello del biennio prima della Coppa del Mondo che recita: quale emisfero è più forte dell’altro? Nella eterna sfida fra i due blocchi di mondo non c’è dubbio che il Nord se la passi momentaneamente meglio del Sud. Almeno così sembra dopo l’autunno appena trascorso.
Certo, questi inutili ragionamenti non hanno mai trovato conferma al Mondiale e, anche oggi, a dicembre 2021 rimangono semplici parole da bar pronunciate in un blog di smanettoni del web.
Quello che possiamo affermare in base alle prestazioni è che nel 2021 il Sudafrica ha ridisegnato il concetto di dominanza fisica, la Francia è in grado di sfoggiare un rugby a dir poco eccitante, la Nuova Zelanda è la squadra che ha segnato di più ma non quella migliore di tutte, l’Australia possiede i requisiti tecnici per tornare grande, l’Inghilterra sta incubando una generazione di pepite d’oro, la Scozia sa ottimizzare le poche risorse a sua disposizione senza perdere in spettacolarità e l’Irlanda si affaccia al 2022 affamata di successo perché sa che può ottenerlo. E il Galles? Beh il Galles anche se incerottato non muore mai. In questa giostra di splendore che raggruppa la crème de la crème di ovalia ci infiliamo timidamente anche noi, un’ Italia che al pari dell’Argentina ha concluso un 2021 a tratti imbarazzante.
Mamma mia Antoine!
Antoine Dupont è un giocatore straordinario. Uno di quelli che ti fa mettere in dubbio il concetto di rugby come sport di squadra per quanto è forte. Ogni cosa difficile lui la rende facile. Ora, non fraintendete l’apprezzamento come un esercizio di apologia privo di critiche. Dupont non è che sia perfetto. Qualche passaggio gli esce sbavato e non sempre interpreta al meglio i momenti topici della gara che richiedono una gestione razionale. Solo che in quel metro e settanta scarso di faccia da schiaffi c’è una miscela esplosiva di velocità, agilità, forza, intelligenza con cui riesce a risolvere ogni situazione in modo a dir poco sorprendente.
Il 2021 è stato l’anno della consacrazione per un sacco di giocatori forti: Eben Etzebeth, Caelan Doris, Marcus Smith, Stuart Hogg, Will Jordan e via dicendo. Nessuno come Dupont è riuscito a far strabuzzare gli occhi ogni volta che ha avuto la palla fra le mani. Semplicemente magnifique.
Cantiere Italia
Il cambio di rotta era solo questione di tempo. In FIR non si poteva più andare avanti così, senza una discontinuità che potesse mettere in discussione una reggenza lunga e poco fruttuosa sul piano dei risultati sportivi. A marzo 2021 è arrivato Marzio. Un ex capitano azzurro carismatico chiamato a togliere dalle secche una Federazione in difficoltà. Se Innocenti avrà la stoffa per imbastire una rivoluzione copernicana non possiamo saperlo. Per questa ragione i 12 mesi dell’organo politico più importante d’Italia sono valutabili solo in maniera parziale.
Possiamo dire che a novembre la nazionale di Crowley ha giocato male. Non si capisce come ci possa essere soddisfazione in questo, ma la linea espressa è quella della positività e allora preferiamo pensare positivo anche noi, in attesa di tempi migliori (che non saranno tra febbraio e marzo, quando verremo maltrattati al Sei Nazioni).
Mettiamo da parte la lente di ingrandimento sui risultati di campo, perché si sa, Roma non è stata costruita in un giorno, quindi concentriamoci su alcuni cavalli di battaglia del programma federale: rilancio del Sud, rugby di base e piano ‘qualified exiles’. Per dirne tre. Tre progetti che hanno segnato i primi mesi di governo e su cui ci sarà tantissimo da lavorare. Per adesso se ne è parlato tanto, a volte con cognizione di causa, a volte meno.
Il primo progetto è semplicemente auspicabile, strategico, necessario per una diffusione armonica del nostro sport. Va capito quali saranno gli interventi tesi a rafforzare una presenza ovale nel meridione oramai ridotta al lumicino.
Sul rugby di base invece abbiamo assistito ad un lancio in pompa magna degli Open Day del Minirugby, scoprendo che si trattava di un lavoro privo di senso. La giornata nazionale dedicata alle prove di rugby per i bambini infatti non è stata nient’altro che una locandina fatta girare sulle bacheche social delle società italiane, un diplomino in PDF girato alle mail federali dei club e nient’altro. Il tutto lanciato a fine settembre, cioè quando la stragrande maggioranza dei club un minimo strutturati ha già iniziato a fare “open day” da almeno un mese. Diciamo che sul rugby di base ci aspettiamo interventi formativi parecchio più evoluti, di quelli che possano mettere le società in condizione di camminare da sole sia sul piano tecnico che su quello organizzativo. C’è una task force appositamente dedicata alla ‘promozione & sviluppo’, un’idea di dialogo perenne con i club e 4 milioni di euro da spendere. Ora tocca tirare fuori i risultati.
E il piano Qualified Exiles? In realtà non è un progetto così nuovo per il nostro rugby. Da una parte conferma la sostanziale incapacità nel produrre un numero sufficiente di atleti autoctoni pronti per l’alto livello, dall’altra è un’ opportunità che dobbiamo cogliere per stare al passo con i nostri competitor.
Gli azzurrabili in giro per il mondo sono presumibilmente tanti. Non dovrebbe essere troppo difficile attingere in tempi brevi da un nuovo bacino di atleti oriundi e/o equiparabili. Spetta alla federazione scovare quelli forti, inserirli nelle franchigie e trattenerli con una progettualità seria, distribuita sul medio e lungo termine. Questa sembra la sfida più difficile di un progetto che, al netto delle critiche, è quanto mai necessario per impolpare una squadra nazionale a corto di artiglieria pesante.
Frontiere liquide
Toyota Challenge. Ecco il nome dell’ ultima stranezza del 2021. Un torneo internazionale organizzato in Sudafrica fra Cheethas, Baia Mare (Romania), Barcellona (Spagna) e le seconde squadre di Cell C Sharks e DHL Stormers. In epoca di confinamenti pandemici sembra che il rugby a volte segua traiettorie opposte a quelle del buonsenso. Partendo dallo United Rugby Championship, fino alla Rugby Europe Super Cup, passando per la Super Liga Sudamericana si susseguono i tentativi di accorpare il poco professionismo presente nel mondo oltre a quello iper strutturato delle federazioni più importanti. È tutto legittimo, ci mancherebbe. Io però inizio a non apprezzare più di tanto queste operazioni maldestre di “visibilità”. Siamo così sicuri che l’introduzione di un elemento transnazionale dia del valore aggiunto a dei tornei di fatto senza anima? Lo United Rugby Championship fa quel che può per rendere accattivante la competizione. Rispetto alla Premiership e al Top 14 però non c’è partita. Due campionati che rispondono presente all’esigenza di competitività insita nel rugby inglese e francese, dove rivalità e ‘campanilismo’ sono valori aggiunti. Insomma, per il 2022 esprimo un desiderio dai toni vagamente conservatori: più derby, meno leghe.
Chi non c’è più
Tanti, troppi rugbisti e rugbiste hanno passato la palla nel 2021. Un pezzetto di cuore se ne va ogni volta che un rugbista muore. Perché siamo una comunità universale e piccola al tempo stesso. Perché siamo gente che vive di emozioni e non rimane indifferente alla morte di chi ha combattuto fuori e dentro il rettangolo di gioco.
Addio a Tito Lupini, Siobhan Cattigan, Massimo Cuttitta, Marco Bollesan, Franco Mazzantini. Addio a tutti gli altri rugbisti più o meno famosi che sono defunti quest’anno.
E una parola aggiuntiva per Leonardo Mussini, la cui morte mi ha colpito più di tutte. Mussini stava dietro le quinte svolgendo un ruolo di coordinamento, una funzione di comunicazione organizzativa che solo chi vive i contesti delle società sportive sa quanto è importante. Persone come lui consentono al nostro rugby sgangherato di trovare una forma laddove a volte regna il caos. Un bravissimo manager della comunicazione scomparso troppo presto che ha meritato tutti gli applausi di solito riservati a chi segna le mete o realizza i calci piazzati.
Breve carrellata dei Flop e dei Top. Così de botto, senza senso
Flop
Rassie Erasmus. Bravo a costruire una squadra al Top, un po’ meno a fare un J’Accuse planetario di cui non si sentiva il bisogno
Pumas. Mamma mia che brutta l’Argentina del 2021
Calvisano. Il rullo compressore della bassa bresciana sembra aver finito la benzina.
Warren Gatland. Il coach dei Lions è oramai a fine corsa. In Sudafrica ha sbagliato quasi tutto.
Exeter. La fuori serie di Rob Baxter scricchiola in Europa e non primeggia in Inghilterra. Forti son forti, ma dopo il dominio del 2020 va rivisto un po’ il loro livello di competitività.
Top
Stade Toulousain. Che ha ritrovato la cifra stilistica del suo rugby e ha sbancato in Francia e in Europa.
Portogallo. Delle nazioni B è la migliore, nonchè la più in crescita del 2021.
Eddie Jones. A parte lo sfondone a mezzo stampa su Marcus Smith, ha dismesso per un po’ la dialettica da ganassa per concentrarsi sul lavoro tecnico. E l’Inghilterra di fine 2021 ne ha tratto giovamento.
Colorno e Piacenza. Dalla via Emilia passa la vivacità più sorprendente del Top 10. Grazie a loro il Campionato si è fatto sempre più incerto.
Fiji. E fanno due. Due medaglie d’oro olimpiche per un arcipelago che mette insieme più o meno gli stessi abitanti di Torino.
Due momenti due. Le azioni che hanno infiammato il mio personale 2021. Perchè il rugby quando si fa sfrontato e offensivo diventa poesia.