Se i veri nemici del Top 10 fossero i gufi?

A forza di leggere che il Top 10 è brutto ci siamo convinti che brutto lo sia davvero. In tempi di  Covid e partite internazionali rinviate, gioco forza lo sguardo è caduto sulle dirette della FIR, con tutti i difetti e le opportunità che ne conseguono. Il Top 10 in ogni caso rimane il boccone amaro degli appassionati. Denigrandolo non corriamo il rischio di raccontarci una falsa verità?

Ripercorriamo un attimo i tormentoni che si leggono fra social network, stampa specializzata e chiacchiericci da bar.

“Il TOP 10 è un campionato di livello basso”, “Il TOP 10 non ha visibilità”, “Il Top 10 non è un campionato abbastanza professionistico”.

Tutto vero, ma anche no.

Intanto è bene ricordare che ogni 5 anni, chi si occupa di raccontare il nostro rugby di club porta a galla un nuovo problema, vero o presunto. Un giorno è brutto, un giorno sono troppe squadre, un altro giorno ci sono troppi stranieri e tutti i giorni non è una kermesse che prepara gli atleti alla nazionale.

Il Top 10 è un campionato di basso livello. Affermazione forte. Mah, boh. Parliamone. Per fare in modo che questa affermazione sia giustificabile dovremmo valutare alcuni parametri tecnici oggettivi che solo gli addetti ai lavori possiedono, quali: tempo effettivo, statistiche che certificano la qualità dell’esecuzione nei lanci del gioco, percentuali di placcaggi riusciti/sbagliati ecc.

Non essendo dati facilmente reperibili ci affidiamo a ciò che vediamo, cioè partite a volte combattute, a volte no, ma non così oscene come la vulgata popolare vorrebbe farci credere.

Il week end scorso e il precedente (16 e 23 gennaio 2020) vuoi perché non si è giocato in Coppa, vuoi perché erano le uniche partite del rugby italiano da poter vedere senza troppi sbatti, chi scrive si è messo a guardarle più o meno tutte e vi dirò, lo spettacolo sinceramente non è stato così male. Un Petrarca Padova che gioca e bene sui principi, un Viadana propositivo, un Colorno equilibrato e ricco di soluzioni, delle Fiamme Oro fisicamente straripanti, giusto per fare qualche rapido esempio.

Semmai va capito perché un utente già ovalizzato arriva a sintonizzarsi sul Top 10 per esclusione.

Proviamo a fare un giochetto definitivo. Visto che non di rado si crea il dibattito a dir poco sommario al grido di ‘servirebbe più marketing’, ecco che un po’ di infarinatura sulla questione e un minimo di nozioni di marketing, quello vero, ci vengono in aiuto.

Mettiamo il Top 10 ai raggi X del Marketing Mix.  Lo schema classico e anche un po’ vetusto delle strategie più comuni di marketing operativo (Di cosa si tratta leggetelo su Wikipedia). Le 4 P: Product, Price, Place, Promotion.

Quinta P: Procediamo.

Product

Cosa è il Top 10? Cosa offre? Quali sono le sue peculiarità?

Il Top 10 è il massimo campionato nazionale e offre un palcoscenico di confronto per i giovani italiani in cerca di gloria. Finita qui? No. Per quanto mi riguarda offre anche degli stadi di ottimo livello come lo Zaffanella, il Battaglini, il Mirabello, il Plebiscito (quando usato) e una vocazione provinciale che se ben strutturata può diventare un valore aggiunto piuttosto che una zavorra di cui vergognarsi. La famigerata estensione “metropolitana” ad oggi non è proprio nelle corde del nostro rugby.

Poi ci sono un sacco di tecnici italiani bravi e competenti e infine qualche progetto di crescita umana per gli atleti che male non fa.

Price:

Quanto deve costare questo prodotto? Quanto sareste disposti a spendere per acquistare il prodotto Top 10?

La risposta è facile: per come è messo, Zero.

Non per il livello che il campionato è in grado di proporre, ma per la scelta suicida degli addetti ai lavori di considerarlo un campionatuccio, una competizione da poveracci. La reputazione del TOP 10 è andata a puttane con l’avvento della Celtic League, lo sappiamo tutti, e adesso ogni tentativo di diffusione del prodotto rugby deve puntare ad allargare il bacino di utenti e dunque essere gratis senza dubbio alcuno.

Questa invadenza del Pro 14 però non significa che si debba asfaltare  un sistema piramidale che vede le franchigie in testa, si tratta semmai di valorizzare ciò che già esiste. Qualcuno si impegna a dire che il livello di DAZN (9.90 € di furto mensile) è infimo rispetto a ciò di cui avrebbero bisogno Benetton e Zebre? Qualcuno pensa che fra un Rovigo vs Padova senza limiti di pubblico da Covid e uno Zebre vs Dragons durante le finestre internazionali, il prodotto rugby nella sua interezza sia più godibile a Parma piuttosto che al Battaglini? È un problema di percezione che va corretta con iniziative forti, dei club e della Federazione soprattutto.

Place

Come si porta il prodotto ai potenziali clienti?

I luoghi non fisici dove vedere il rugby sono aumentati in forma esponenziale grazie al proliferare delle piattaforme social.

Questo non significa che in un ottica di multicanalità sia possibile abbandonare alcun tipo di media.

Carta stampata, blog, portali web, TV locali e nazionali, dirette radio, streaming web, YouTube ecc. ecc.

Il TOP 10 li esplora tutti? Mmm no.

Altra domanda: È più grave che le partite non siano in chiaro in TV o che il pubblico non riesca a fare lo sforzo di spostarsi su Facebook?

Ad oggi le gare vengono trasmesse gratuitamente sui canali social della Federazione Italiana Rugby. Mettetela come vi pare, ma questa è una opportunità che non fa così schifo.

Il problema è cosa vediamo o come lo vediamo? O come vorremmo vederlo? Io penso che lo streaming sia una soluzione più che dignitosa. Siamo nel 2020, le TV che supportano la connessione internet sono la maggioranza, e poi diciamocelo pure che stiamo attaccati al cellulare o al tablet praticamente gran parte della nostra giornata.

Il limite è più mentale che pratico.

L’utente medio italiano non si fa scrupoli a guardare uno streaming pakistano pieno di virus informartici per vedere la nazionale Under 20 e disquisire sulla qualità del vivaio azzurro per poi ignorare le partite del massimo campionato domestico. Mistero della fede.

Va anche detto per onor di cronaca che guardarsi una partita sulla smart TV o dallo schermo di un PC o dallo smartphone toglie potenziali fruitori fra chi non possiede un profilo Facebook o i device sopra citati.

Se ci aggiungiamo che a volte le riprese sono scarse o contraddistinte da inconvenienti tecnici, allora è più facile capire che il problema non è insormontabile, ma comunque c’è.

Chi lo deve risolvere?

La risoluzione probabilmente dovrà essere un affare a due fra FIR e Club. Non penso che si possano allocare colpe esclusive se tutto il sistema del rugby italiano non riesce a far emergere definitivamente la palla ovale dal buio.

Promotion

Eccoci al punto focale del discorso.

Il TOP 10 manca di tutto ciò che  dovrebbe renderlo bello. Abbiamo premesso le difficoltà tecniche, ora si tratta di capire come FIR e Club lavorano per invogliare un qualsiasi tifoso o semplice appassionato a guardare le partite.

In un mondo perfetto ci piacerebbe che tutte le squadre avessero un protocollo di azione unificato per la gestione e le tempistiche dei Comunicati Stampa, della pubblicazione delle formazioni, dell’uso dei social (storie Instagram, shop online, ecc.), un commento tecnico a due voci frizzante e competente per ogni partita.

Magari anche un po’ di Bar dello Sport o pendolino di Mosca fatto di preview, analisi del post partita e statistiche a pioggia.

Si, qualcosa si sta muovendo in questo senso e il title sponsor Peroni aiuta ad avere una centralizzazione visuale dei contenuti. Ancora non sufficiente per rispondere alla sfida di restyling reputazionale che serve al Top 10.

È inevitabile che ci troviamo di fronte ad un cambio totale del paradigma comunicativo. Le 4 P di cui abbiamo parlato finora sono diventate progressivamente 4 E: Experience, Exchange, Everywhere, Emotion. Il rugby di casa Italia si deve adeguare a questa ricerca di qualità emozionale se vuole sopravvivere. Deve far dire a qualsiasi appassionato: “Oggi mi stappo una birra per godermi lo spettacolo di Valorugby vs Viadana”. 

Portare a risplendere un campionato svilito nella visibilità è un lavoro lungo, duro e soprattutto costoso.

Da qualche parte si dovrà pur cominciare no?