Il rugby e i numeri non vanno sempre a braccetto. In un mondo sportivo inondato di statistiche ci piace ricordare quanto è imprevedibile la palla ovale. Tiri giù 20 palloni da touch e il ventunesimo lo sbagli. Peccato che quella era la palla decisiva per vincere l’incontro. Il tuo flanker mette a referto 22 placcaggi, corre, sbuffa, si impegna. Peccato che gli interventi difensivi dominanti alla fine erano solo 2. Hai il possesso del pallone che sfiora il 70%, poi perdi una palla, ti becchi un contrattacco improvviso, prendi meta e vai sotto 7 a 0.
Questa premessa serve per leggere le prestazioni azzurre oltre la fredda lente d’ingrandimento del matematico. A volte i numeri raccontano un bene che non è così bene o un male che non é così male.
Possiamo viceversa affermare che l’analisi delle recenti prestazioni agonistiche diventa un indicatore utile per comprendere lo stato dell’arte azzurro, solo se si considerano le partite nel loro svolgimento. Anche senza tirare in ballo i soliti, e ormai stucchevoli, commenti sulla Federazione Italiana Rugby.
Allora proviamo a fare un bilancio del Sei Nazioni appena concluso.
L’unico numero che inquieta è quello zero, desolante e cupo, nella casella delle vittorie. È il dato che ci serve per capire la differenza oggettiva fra il nostro rugby e il resto d’Europa. Una forbice ampia di cui si conosceva l’esistenza e che va messa sempre in chiaro quando si parla di nazionale italiana di rugby. Ventisette partite senza vincere. Un digiuno lungo cinque anni, spalmato su cinque edizioni. Siamo distanti dal top e lo saremo ancora a lungo.
Andiamo oltre.
L’edizione 2020 – Cosa è andato e cosa non è andato
Gli spunti positivi sono più individuali che collettivi. Non siamo mai stati realmente in partita, né abbiamo mai fatto tremare le vene dei polsi alle contendenti. Considerando tutte le 5 gare si é messo in luce un buon innesto in seconda linea: Niccolò Cannone. Battagliero e solido, lavorando duro sull’esplosività nei blocchi di salto può raggiungere un ottimo standard internazionale. Insieme a lui, Budd prima e a Lazzaroni dopo, la rimessa laterale è stata tutto sommato accettabile.
Sui trequarti abbiamo assistito all’esperimento del doppio playmaker, un quid mai provato che di solito serve in fase di impostazione del gioco. Canna magari non sarà promosso a pieni voti, ma nemmeno può essere totalmente bocciato.
In alcuni frangenti le prestazioni delle terze linee titolari sono state discrete. Il terzetto Polledri, Negri, Steyn, (in rigoroso ordine di rendimento) ha mostrato di poter quantomeno competere, a patto che il resto della mischia riesca a tenere botta.
E qui si apre il capitolo più duro. Il nostro pack è stato dominato sul piano fisico per 5 partite su 5. Possiamo fare filosofia da salotto un tanto al kilo, possiamo parlare di quanto Violi abbia giocato male con l’Inghilterra, ma quale mediano è in grado di brillare quando è costretto a gestire ogni pallone d’attacco come se fosse l’ultimo? Quale terza linea può concedersi il lusso di scorrazzare a tutto campo senza avere prima un pack avanzante?
Conservazione del possesso, incisività dei sostegni, fisicità. Questi tre elementi sono stati insufficienti per tutto il Sei Nazioni. Nella sua brutale essenza il rugby è sport lineare. Perdendo sistematicamente le collisioni non vai da nessuna parte.
I giovani – chi ha esordito e come si è comportato
A volte sembra che l’Italia sia intrappolata nel copione di Aspettando Godot, l’opera teatrale di Samuel Beckett in cui si aspetta un avvenimento che dà l’apparenza di essere imminente, ma che nella realtà non accade mai. Il ritornello lo conosciamo tutti: “quando si vedranno emergere i giovani delle accademie con la nazionale maggiore?” La risposta è incerta e facile al tempo stesso: anche se non lo sappiamo devono farlo prima di subito.
Paolo Garbisi è la nota più lieta oltre che quella più interessante. Non è un numero 10 perfetto, però ha personalità. Lo si è visto da come attacca i palloni, da come è visibilmente incazzato quando sbaglia. È un giocatore interessante perché ha capito subito che in Italia non c’è tempo per maturare, facendosi trovare pronto e soprattutto affamato non appena chiamato in causa. Stesso discorso vale per Cannone e Lucchesi. Sono ragazzi che non vanno coccolati. Erano giovani in under 20, ora sono seniores già pronti e per loro non servono parole al miele, semmai va alzata l’asticella.
Coloro che devono aumentare i giri del motore sono Fischetti, Zilocchi e Mori. I primi due probabilmente intuivano che non sarebbe stato un Sei Nazioni facile e adesso che hanno visto da vicino qual è il livello delle prime linee internazionali, diventa necessario un cambio di rotta nelle fasi statiche. Mori invece possiede il fisico e la velocità dei campioni, ma ha evidenziato dei limiti difensivi da risolvere quanto prima se vuole diventare protagonista a questo livello.
Il coach e il capitano – un gruppo da ricostruire
Franco Smith odia perdere. Lo si vede dal body language che esprime durante le partite, lo si intuisce dal suo percorso compiuto prima con la Benetton e poi con i Cheethas. Smith a dirla tutta non è né migliore né peggiore degli altri tecnici che si sono visti in Italia. Anche lui deve combattere all’interno di uno scenario mondiale in cui le nazionali Tier 1 fanno due passi in avanti mentre noi ne compiamo solo mezzo. L’augurio è che il suo carattere risoluto possa portare fosforo negli equilibri dello staff, perché se da una parte non disponiamo di giocatori fenomenali, dall’altra ci sono delle aree del gioco come la mischia ordinata e l’organizzazione difensiva che prescindono da un lavoro accurato degli assistenti tecnici. Tradotto: se veniamo spappolati in chiusa e non placchiamo, vuol dire che gli specialisti sul campo devono fare di più.
Capitolo Bigi. Il tallonatore delle Zebre è un giocatore la cui attitudine si può solo apprezzare. La faccia ce la mette sempre e lo fa in un contesto a dir poco difficile. La domanda è: quanto giova a Bigi essere il capitano dell’Italia? Da quando è lo skipper degli azzurri sembra molto più frenetico, avvezzo agli errori, come se dovesse sbrogliare la matassa a tutti i costi. Pur non conoscendo gli equilibri interni del gruppo di Smith, è abbastanza chiaro che la sua leadership sia un po’ da rivedere.
Conclusioni
Aspettarsi qualcosa di più era difficile. Forse abbiamo buttato alle ortiche il match con la Scozia, mentre erano evitabili, almeno nelle proporzioni, le disfatte di Cardiff e Dublino. Francia e Inghilterra oggi non sono sfide alla nostra portata.
Giusto per comprendere lo stato di forma del blocco azzurro in Pro 14, nei primi tre turni del campionato 2020/21 le nostre due franchigie hanno rimediato 6 sconfitte. Senza contare il campionato scorso, che é stato interrotto nel momento in cui sia Benetton che Zebre non erano esattamente in procinto di conquistare i play off. Mentre ci interroghiamo su come ottimizzare le risorse tecniche in ottica nazionale, forse è più semplice constatare che queste risorse per il momento non le abbiamo.
I giocatori azzurri potenzialmente più pericolosi, i più riconosciuti all’estero, sono Polledri e Minozzi. Entrambi giocano in Inghilterra, cioè in un campionato dove ogni week end devi sputare sangue anche solo per conquistare la maglia da titolare.
La competizione interna del gruppo Italia rimane un enigma insoluto. Il numero complessivo di giocatori di qualità non sembra ancora sufficiente per un miglioramento tangibile delle prestazioni.
In ogni caso, se i giovani di belle speranze ci sono, non è forse arrivato il momento di mettere in discussione la simmetria perfetta tra franchigie e nazionale per lasciare che i nostri talenti migliori vadano a misurarsi con i più alti palcoscenici europei?