Qui non è Hollywood

I Medicei e San Donà non si sono iscritti al prossimo campionato di Top 12. La notizia era nell’aria, ma fa sempre un certo effetto constatare il ritiro di due squadre dalla massima competizione nazionale.

La vita agonistica dei due club comunque non finisce oggi. Firenze e San Donà di Piave, dotate di due comunità sportive ben radicate, utilizzeranno il paracadute delle formazioni cadette, rispettivamente in A e in B, scongiurando così la cancellazione dalla geografia ovale d’Italia.

A dirla tutta è un passo indietro che non stupisce.

Il Top 12 era diventato per loro un Trop 12 visto che già da mesi avevano fatto intuire difficoltà di cassa. Una storia che nel nostro piccolo mondo del rugby si ripete ciclicamente e che nella sua trama inserisce l’arcinoto strascico di polemiche e ricerca ossessiva dei responsabili. Di chi è la colpa? Dei club poco virtuosi e molto spendaccioni? O della Federazione che non si impegna a sufficienza per attivare un circuito di promozione e visibilità del campionato?

La verità non sta nel mezzo. La verità è che il rugby in Italia è uno sport che non ha attecchito e, a fronte della migliore progettualità possibile, a fronte dei migliori piani di marketing strategico, a fronte dei migliori rapporti con gli stakeholder del territorio, avere una squadra in Top 12 è una spesa che non produce nessun ritorno.

Eziolino Capuano, personaggio vulcanico (e unico) delle serie minori  di calcio, a modo suo ci spiega lo pseudo professionismo dello sport.

Anzi, la messa in onda sulle piattaforme web del campionato da parte della FIR è un plus che depone a favore dell’organizzazione del torneo e della federazione stessa. Ma la visibilità offerta non coincide con il tentativo (mai riuscito) di rendere le tribune piene e con la ricerca di competitività di un campionato che viaggia su velocità tecniche troppo diverse. Che un Presidente di una società di Top 12 possa stufarsi di investire su una squadra che rende felici solo un nugolo ristretto di tifosi è pienamente comprensibile. Non è solo questione di Covid.

Quando il Super 10 si divideva lo schermo fra Tele +, Sky e Rai Sport la situazione era identica. Certo, il portafogli di tutti era un po’ più gonfio, le rose erano infarcite di stranieri, ma di club scivolati con il sedere in terra si poteva ugualmente fare la conta. Nei 20 anni di massimo campionato a nuovo format sono entrate in pista squadre come Bologna, Leonessa Brescia, Veneziamestre, Cavalieri e Crociati che poi per una ragione o per un’altra sono uscite dal finto eldorado della prima serie economicamente distrutte.

Eppure a Bologna, a Brescia, a Venezia, a Prato e Parma il rugby è vivo e vegeto. Ogni giorno ospita ragazzi, appassionati e famiglie sui campi, garantendo un continuum di attività poco sfarzoso, ma socialmente molto utile.

Dunque non è più tempo di interrogarsi su quale sistema adottare per rendere il campionato più popolare. E’ il momento di comprendere che il rugby nostrano può andare avanti solo se i club agiscono con la mentalità di un padre di famiglia. I conti alla fine del mese devono tornare, i passi vanno fatti secondo la lunghezza della gamba e i sogni dei propri figli vanno assecondati con grande pragmatismo e lungimiranza. Perché come cantavano i Negrita, qui non è Hollywood.