Amicizie comuni e condivisione di interessi ci hanno messo in contatto con Emanuele Lusi, rugbysta prima e dirigente sportivo poi. Un quadriennio come Consigliere Regionale nel Comitato Regionale del Lazio. Ora totalmente dedicato alla professione di Dottore Commercialista e Revisore Legale per continuare ad assaporare il mondo dello sport. Membro della Commissione Associazioni e Società Sportive dell’Ordine dei Dottori Commercialisti di Roma.
Il suo punto di vista è a tutti gli effetti un contributo molto profondo sul panorama del rugby italiano, vissuto da vicino e sempre con un occhio di riguardo alla sfera economica che, inevitabilmente, tocca tutti i livelli della nostra palla ovale.
Emanuele, la crisi scatenata dal Covid 19 ha imposto un ripensamento degli equilibri interni al nostro movimento di base. Le incertezze su cosa si potrà o non potrà fare, sui costi, sui cambiamenti sostanziali del rugby. Quali strategie possono adottare i club al fine di non perdere iscritti del minirugby?
Ancora non sappiamo come e quando ci si potrà allenare con il contatto! Oggi non ci si può passare nemmeno la palla, quindi, prima di tutto, la proposta del rugby di base dovrà sapersi adeguare ad uno scenario nuovo e totalmente imprevisto. Le società che si occupano di propaganda si troveranno ad affrontare uno stravolgimento del consueto piano di approvvigionamento risorse e saranno “sotto attacco” da parte di tutti quegli sport che avranno la possibilità di ripartire prima. Da un lato, quindi, ci si deve attivare per strutturare dei piani sostenibili nel medio periodo per sopperire alla mancanza di tutte quelle micro entrate da parte dei piccoli esercizi commerciali e degli artigiani che sostenevano le associazioni e le società sportive e che oggi sono i primi a patire del mutato scenario economico; dall’altro si deve avere il coraggio di reinventarsi sul campo, per diventare attrattivi con le modalità che saranno compatibili ai protocolli in essere e che, purtroppo, ci devono far immaginare una proposta e una offerta formativa diversa da quella cui siamo abituati. In questo momento gli aspetti sociali prevalgono su quelli meramente sportivi, per questo i dirigenti dei club hanno il compito di tenere insieme le loro comunità, magari lavorando più sul coinvolgimento delle famiglie, piuttosto che sulla ricerca di sponsorizzazioni artificiose che non arriveranno.
Credi che un ripensamento della struttura dei campionati possa essere funzionale ad uno scenario post covid? E’ il momento giusto per una lega dei club che possa veicolare la condivisione di conoscenze per potenziare su più piani le realtà del rugby italiano?
Purtroppo la tendenza del rugby italiano è quella di lavorare a compartimenti stagni: alto livello e poi tutto il resto. Tendenza chiara anche nei numeri del bilancio Federale: è vero che l’alto livello è un fattore abilitante a rilevanti entrate economiche (vedi il Sei Nazioni) ma non possiamo continuare a pensare che la base possa crescere senza un programma mirato che coniughi gli investimenti con il supporto tecnico indispensabile per aumentare l’offerta tecnica che molte associazioni non si possono permettere e, quindi, non riusciranno mai a sviluppare in autonomia. Esiste poi limite culturale da superare, la condivisione di conoscenze è un processo che non sempre vede coinvolti i club in forma spontanea, come se la messa in circolo di idee e spunti fosse un modo per rubare segreti alle società più organizzate, invece, le sinergie, quando applicate con regolarità, sono sempre positive. E questo lo dico a voce alta, perché spesso la prima resistenza al confronto ed allo scambio esperienze fra i club la si incontra proprio tra i Presidenti. Tante volte ho sentito ostilità nel confronto e, peggio, anche banalmente nel partecipare a un torneo perché organizzato da tizio o da caio. Alcuni Comitati Regionali, stanno facendo un ottimo lavoro in questa direzione ma la strada è lunga. Speriamo che questa crisi aiuti a capire veramente il valore del fare squadra! Certo è che le esigenze sono molto differenti: sicuramente un organo come la Lega dei club potrebbe garantire rappresentanza e tutela degli interessi comuni soprattutto nelle serie maggiori, ma il grosso del lavoro deve passare per i Comitati regionali che devono essere potenziati sia nelle strutture che nei budget e, soprattutto, nell’autonomia gestionale, sempre nel rispetto delle linee guida federali. A mio avviso, solo così si può lavorare efficacemente sulla base.
Guardando alle prospettive future dell’alto livello gestito dalla Federazione, sarà possibile conciliare progettualità e risparmio?
Il vertice del nostro rugby si regge su dei costi che in futuro potrebbero e dovrebbero essere ritoccati e adeguati allo scenario mutato. L’incertezza sugli sviluppi del Sei Nazioni costituisce un’incognita anche per la punta del movimento di club rappresentato dal Pro 14. I costi dell’alto livello dovranno adeguarsi ad un mercato in cui non sarà più possibile spendere cifre consistenti per rastrellare giocatori stranieri a fine corsa o allenatori non funzionali ad una progettualità di lungo termine. Sono finiti i tempi dello straniero in serie A, o in serie B, per salvarsi o puntare alla promozione perché, lo abbiamo visto, quando non ci sono più i soldi, il progetto si sgonfia con molta più velocità di quanto si fosse gonfiato. Soprattutto tutte le modifiche dovrebbero essere spinte dal basso. Mi spiego: allargo la partecipazione di squadre a un campionato quando la serie inferiore è una serie combattuta e quando le pretendenti alla fase finale sono almeno la metà del girone. In serie A o in serie B da qualche anno abbiamo due squadre per girone che si giocano la promozione, una già retrocessa in partenza altre due tre che si giocano un posto in retrocessione. Questo è svilente. La nostra serie maggiore riflette questo scenario: come possiamo pensare di crescere se non c’è lotta e combattimento? Ricordo sempre un mio allenatore che quando avevamo due prime squadre (una in B e una in C2) al rientro dagli infortuni ci faceva fare non più di due partite in C2 perché nel rugby “ti adegui al ribasso”.
Sul tema del risparmio, ognuno di noi può avere delle idee e puntare su quella voce, piuttosto che su quell’altra. Il tema di oggi non è valutare (e faccio un esempio per assurdo) di far giocare una franchigia sola per risparmiare risorse da destinare al movimento ma è di analizzare quanti dei nostri ragazzi che escono dai percorsi delle accademie giocano poi in quelle franchigie. Due franchigie piene di stranieri non possono essere espressione del nostro movimento. Anche nella esperienza di club, ho sempre creduto fermamente che si gioca nella serie che si merita. E se saremo in grado di lavorare bene e crescere, andremo avanti… se no dovremo lavorare di più. Il driver non può e non deve essere solo economico: dobbiamo avere il coraggio di guardare ciò che siamo e di adeguarci, ri-pianificando tutto o, almeno, tutto ciò che non possiamo più permetterci.
La ripresa graduale della nostra socialità passa anche dalla messa in sicurezza dei luoghi di aggregazione. Nel rugby però c’è chi una clubhouse e un campo proprio su cui allenarsi non ce l’ha. E allora che tipo di competenze serviranno per tenere insieme le comunità sportive rimaste in contatto fino ad oggi solo con le videoconferenze?
I club del rugby di base si reggono su una serie di equilibri tipici dello sport amatoriale. Proprio lo status di volontari che spesso descrive il ruolo della maggior parte degli attori in gioco, rischia oggi di essere un elemento poco utile alla causa: il volontariato è una risorsa immensa ma non può esserci solo volontariato. Spesso sento parlare di professionismo associato al fatto che si venga retribuiti. Il professionismo che ho in mente per ripartire è quello fatto di persone che si formano per imparare una professione e questo vale dal custode al dirigente accompagnatore, dalla segretaria di campo ai tecnici. Per ripartire non basterà essere uniti e pieni di volontà. Servirà un reticolo di competenze, di cosiddette soft skills, al fine di coinvolgere le persone in un progetto di rugby mutato nelle sue fondamenta.
In un contesto economico segnato da chiusure di attività commerciali e punti di PIL in caduta libera, che cosa possono fare i club per mantenere rapporti di sostegno reciproco con le aziende?
Oggi prevedere quello che sarà tra cinque/sette mesi è pressoché impossibile. Da quello che vedo dal mio punto di osservazione, non sarà facile o almeno i piccoli artigiani, commercianti le piccole e medie imprese soffriranno moltissimo. I grandi avranno la possibilità di tagliare, ma non sarà facile. Innanzi a questo scenario, e non parlo di mondo sportivo, le aggregazioni saranno un elemento vincente: negli studi professionali, tra aziende, tra artigiani. Mettere in atto tutte le azioni possibili per condividere costi, progetti e strategie e non esser spazzati via. E allora lancio una provocazione: perché no anche nello sport? Abbiamo situazioni assolutamente eterogenee sul territorio nazionale: due grandi regioni traino (Lombardia, Veneto) che probabilmente reggeranno bene; tre regioni a metà strada (Lazio, Emilia e Toscana) che soffriranno, soprattutto nei centri capoluogo e poi, purtroppo, molto poco. Gli strumenti di marketing sportivo dovranno evolversi sulle tendenze evidenziate durante la prima fase di contenimento del Coronavirus. Messaggi positivi che rispondano ad una responsabilità civica delle aziende, esattamente simmetrica alla responsabilità che anche i club hanno il dovere di veicolare. L’ elemento di congiunzione è di natura etica e sociale, non più soltanto commerciale.
Mai come in questo periodo “fare squadra” farà la differenza, e mai come in questo periodo a decidere del futuro del rugby sarà un elemento non economico, ne organizzativo, un reale, sincero e profondo amore per questo sport.