Ci sono alcuni argomenti che ritornano, endemici, nel dibattito ovale italiano. Il tema del sud. Com’eravamo belli una volta. Grenoble 1997. C’è stato un tempo in cui il rugby italiano attirava grandi nomi.
E al di là del fatto che su questi argomenti il dibattito si arrovelli, si attorcigli e finisca molto spesso in una nebulosa conclusione che addita sommariamente al vertice tutte le colpe della mancata trasformazione dell’Italia in una potenza ovale, c’è tanto di cui parlare all’interno di questi topic, come li chiamerebbero in un forum di moda nei primi anni Duemila.
Da ventisei anni nessuna squadra del sud Italia riesce a conquistare lo scudetto del rugby italiano. Dal 2000, non arriva neanche più in finale. Anzi, ormai il sud è anche sparito dalla massima serie (Roma non è sud, vi vedo voialtri che lo pensate).
L’ultima volta fu nel 1994, quando L’Aquila Rugby Club ottenne il quinto titolo della sua storia a Padova, in una finalissima contro i campioni uscenti del Milan, in cui gli abruzzesi giocavano la parte di David e i rossoneri quella di Golia e finì proprio come in quel duello di biblica memoria, solo che al posto della fionda c’era il piede di Luigi Troiani.
Abbiamo raccontato la storia dello scudetto 1994 nell’ultima puntata del nostro podcast, Quindici, insieme a uno dei protagonisti di quell’annata
Ed era francamente un rugby bello, molto diverso da quello di oggi sia in campo che fuori da esso. In campo era il tempo della ruck con 8 uomini, delle cravatte intese non come accessorio da indossare, della fantasia motoria e anche di una certa accettazione dei limiti atletici dei giocatori, specie quelli che indossavano una maglia coi numeri dall’1 al 3. Fuori, era un rugby di passaggio fra un’era, quella totalmente amatoriale, e un’altra, quella professionistica, che nella sua condizione ibrida favoriva un contesto come quello italiano.
Un’economia in quel tempo col segno positivo, che invitava ad investire verso nuove prospettive, e la palla ovale poteva essere una di queste. In Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica, invece, la condizione amatoriale determinava la coesistenza di rugby e lavoro: ecco che allora tanti dei giocatori più forti al mondo non si negavano un paio di stagione all’estero, perché no in Italia. David Campese, Buck Shelford, Jason Little, Michael Lynagh, Naas Botha, Joel Stransky, Danie Gerber, per fare alcuni nomi.
Da questo brodo ribollente di grandi nomi stranieri e di tradizione, con piazze di provincia che si ergevano al pari dei grandi centri come Roma e Milano grazie alla loro scuola ovale, nacque poi quell’accelerata fondamentale per portare l’Italia nel Sei Nazioni a partire dal nuovo Millennio.
Di tutto questo ricorre il 23 aprile un anniversario importante, dicevamo, quello de L’Aquila, esempio principe di quel contesto effervescente. Tanti auguri in retrospettiva, con la speranza di rivedere di nuovo una città del sud rivaleggiare per un posto al solo ai massimi livelli del rugby italiano.