Parto forte: il coronavirus non ci renderà migliori. Anzi il coronavirus è una brutta catastrofe che sto odiando con tutto me stesso.
Non è questo il contenitore adatto per espletare improbabili ricerche antropologiche, dunque mi limito a pensare senza ricetta alcuna il rugby che verrà dopo il coronavirus. Ho una certezza, ciò che sto vivendo adesso non è un rugby migliore, anzi è una cagata pazzesca. Proprio come lo era la corrazzata Potiemkin del ragionier Ugo Fantozzi.
Il rugby è sport di esempi edificanti e la chiamata alle armi del buonsenso è arrivata puntuale. Campionati fermi, giocatori che si ritraggono a un metro di distanza, atleti amatoriali e professionisti che trasformano il salotto di casa in una novella muscle beach.
Tutto bellissimo e anche condivisibile. All’inizio della pandemia però. Ora invece si inizia a sentire la mancanza delle peculiarità che rendono unico il nostro sport quali socialità, contatto fisico, goliardia, trasferte, spettacolo, agonismo e chi più ne ha più ne metta.
Si ok, raccontateci pure che questo coronavirus è il test perfetto per le dubbie capacità di digitalizzazione del popolo italiano, che ci servirà ad essere più solidali e rispettosi del prossimo. Magari anche più empatici. Io credo invece che sia una balla colossale, se la estendiamo al rugby poi diventa una balla infinita.
Anche al massimo livello professionistico le sedute di allenamento prima o poi prevedono un giorno di fuoco. Contatto, botte e placcaggi che servono a riportare il processo di analisi della performance su un piano concreto, su l’unico elemento che rende il rugby e, in senso lato lo sport, un cosmo dorato e non replicabile. L’interazione faccia a faccia. La sfida. Il confronto.
I piegamenti in giardino, il fitness con le casse di acqua, lo squat con il labrador in collo hanno francamente stancato. Il coronavirus non è un gioco, è una tragedia. Gli sportivi sono in attesa della mancia governativa da 600 euro, ma questo non basta per lenire il dolore di chi non può più vivere la routine nel suo contesto naturale che è sempre e comunque quello del campo. Il rugby era già uno sport povero, ritrovarselo fra qualche mese ancora più povero non è una buona notizia. Facciamocene una ragione.
Domenica 5 aprile 13 ciclisti professionisti hanno corso il Giro delle Fiandre attraverso un simulatore elettronico. Inutile spiegare che la magia della classica delle Ardenne non sarà mai riproducibile in digitale. Questo perchè sui quasi 300 km di strada dissestata si verifica un fenomeno tribale che trova la propria catarsi in un nugolo di corridori sfiancati dalle instabilità del muro di Molenberg. Perchè la competizione è fatta di rumori, odori e sapori. Non di gare a chi ha il bicipite più grosso davanti ad uno smartphone di ultima generazione.
Narrare questa nuova realtà si sta facendo più faticoso del previsto. A volte proviamo anche noi a fare dei flashback temporali, a scolpire di nuovo nella memoria dei momenti indelebili, ma va detto con sincerità, l’amore per il revival non può durare a lungo. Dietro alla maggiore disponibilità di tempo si cela una forte inquietudine che ci vede tutti coinvolti. Non esiste uno sport da commentare se non c’è uno sport da vedere. E per chi scrive di rugby subentra una ulteriore barriera: non è uno mondo il nostro che campa sul pettegolezzo.
Fortunati gli omologhi blogger della palla tonda che almeno hanno argomenti di calciomercato a riempire le loro bacheche. Il rugby invece ha bisogno di una agenda editoriale vera, direttamente proporzionale alla autenticità del campo. Non si bara con la palla ovale. Chi prova a imbrogliare sulla carta stampata forse raccoglie gossip, like e consensi, ma di sicuro non racconta il nostro sport.
E allora lasciatemelo dire: viva il campo, viva lo spogliatoio, quello del Sei Nazioni e quello di serie C. Viva i rapporti umani, schietti e diretti. In malora ci andasse il coronavirus e tutte le sue virtù moralizzatrici.