Nell’arco di una settimana l’immagine del rugby internazionale è cambiata ad una velocità che nessuno poteva preventivare. Dalle stelle del Sudafrica campione del Mondo alle stalle dei Saracens penalizzati di 35 punti e multati di 5 milioni di sterline per violazione del salary cap il passo è stato breve.
Quando una Rugby World Cup si chiude, automaticamente si innesca un meccanismo di analisi che tocca tanto gli aspetti tecnici quanto gli aspetti economici.
La dicotomia fra ciò che è successo in Giappone e ciò che è successo in Inghilterra ci pone oggi di fronte ad una domanda delicata. L’incremento di denaro nel rugby di alto livello è un rischio o un’opportunità?
Se guardiamo ai fatti cronologicamente più recenti, non si può fare a meno di considerare il denaro come un mostro luciferino capace di violare il principio cardine del rugby. La lealtà.
Se sarà appurato che i Saracens hanno commesso una così palese infrazione, allora ci troveremo di fronte alla squadra di club più forte d’ Europa alle prese con un problema etico che minerebbe la sua credibilità nel profondo. Giusto per ricapitolare: il Presidente Nigel Wray avrebbe offerto pacchetti azionari e proprietà immobiliari “fuori busta” ai suoi top player Maro Itoje, Owen Farrell, Billy e Mako Vunipola per aggirare il tetto salariale imposto dalla Premiership.
Innescata la bomba, si susseguono le reazioni feroci dei club rivali. Tutto comprensibile, se non fosse che per il rugby anglosassone questo non è il primo scandalo. Il bloodgate architettato dagli Harlequins è il precedente che segnala una falla nel sistema abbastanza evidente. Un sistema in cui a volte il fine giustifica i mezzi a discapito dei tanto osannati valori del rugby.
In un fantomatico “le crunch” finanziario l’Inghilterra però non è sola, anzi, gioca la partita dei soldi sporchi con il rivale di sempre: la Francia. I nostri cugini d’Oltralpe infatti sono costantemente sotto i riflettori dello sport business grazie ad un campionato professionistico come il Top 14 che nel 2018 attraverso la LNR ha registrato 1,04 md di € di impatto economico per i territori coinvolti (considerando anche l’indotto) e una cosa come 5280 posti di lavoro. Il giochetto però non è sempre stato limpido, tanto che un imprenditore come Mohed Altrad (capace di accumulare con il suo gruppo 1 miliardo di dollari di fatturato con circa 7 mila presone in 110 filiali sparse in tutto il mondo) è stato lo sponsor che in sostanza ha spostato gli equilibri dell’assegnazione per la RWC 2023 a suon di denari. Come? Con una rete di scambi e pivilegi architettati insieme al Presidente FFR Bernard Laporte in favore del suo Montpellier. Della serie tu mi aiuti a scippare la RWC 2023 al Sudafrica e io ti copro le magagne del club.
Visto così il responso è lapidario. Il professionismo ha alzato l’asticella degli investimenti e lo ha fatto senza troppi scrupoli. Vincere non è importante, diventa l’unica cosa che conta e per farlo si passa sopra a tutto, anche alle peculiarità educative che distinguono il rugby dagli altri sport.
A spiegare il sentimento che sta montando in Inghilterra è stato l’ex capitano inglese Cris Robshaw che intervistato da BBC Sport ha dichiarato:
“Il rugby pensa che sia al di sopra di tutti gli altri sport. Guardiamo a cosa è accaduto nel calcio, nell’atletica e i loro imbrogli. Ora siamo esattamente gli stessi. Siamo in una posizione difficile e dovremo lottare duramente per recuperare. Siamo anche noi colpevoli.”
Dunque i soldi hanno fatto scoppiare definitivamente la bolla ovale?
Non sempre e non per tutti. Spostiamo per un attimo la bussola sulla Nuova Zelanda e cerchiamo di capire che cosa significhi conciliare gli aspetti economici con l’essenza del rugby.
Mentre Sonny Bill Williams è appena tornato al rugby league strappando un contratto da 10 milioni di dollari con la franchigia transnazionale dei Toronto Wolfpack, l’estremo degli All Blacks Beauden Barrett non più tardi di quattro mesi fa ha rifiutato due proposte indecenti per approdare in Europa alla cifra record di 2 milioni di euro a stagione.
I rumors raccontano che la trattativa abbia visto coinvolti Lione e La Rochelle, guarda caso due delle squadre emergenti del rugby europeo sia sul piano sportivo che su quello finanziario.
Il fenomeno neozelandese però ha rifiutato di comune accordo con il suo agente, supervisionato dal manager dei contratti professionistici per la NZ Rugby Chris Lendrum che ha dichiarato:
“Le somme che avrebbe potuto prendere in Francia erano astronomiche. È un giocatore fantastico. Ma il rischio, se un tale giocatore approda a La Rochelle o Lione, è che non giocherà mai più per gli All Blacks. Sarebbe stata una grave perdita per il rugby mondiale.”
In questo caso l’attrazione fatale per la maglia nera ha vinto su tutto, perché è cosa nota che NZ Rugby non arriva a offrire 2 milioni di euro a stagione per trattenere un singolo atleta, rimarcando che il fuoco della competizione internazionale è ancora un forte stimolo per i giocatori più quotati del mondo nonostante le proposte più ricche della storia del rugby arrivino costantemente sul piatto dei fenomeni tuttineri.
Premesso ciò, non dimentichiamoci che giocare in Nuova Zelanda a qualcuno i benefici li porta eccome. Nel 2017, anno del Lions Tour, la Federazione neozelandese ha annunciato di avere avuto ricavi per 257 milioni di dollari neozelandesi (150 milioni di dollari) con un utile pari a 33 milioni di dollari. Il tutto completato da due partnership di rilievo come quelle con Amazon e Apple. Non proprio spiccioli.
In un “sistema rugby” sempre più orientato a nuovi mercati, non è un delitto scalare le gerarchie della Sport Industry. Nella classifica dei migliori sport in base al potenziale di crescita dei ricavi elaborata dalla società di consulenza svizzera PWC risulta che il rugby è il 5° sport al mondo dopo Calcio, Basket, Urban Sports e Tennis. Questo cosa significa? Che siamo ricchi, ma non ricchissimi. Diffusi, ma non interamente globali.
In questo panorama che ci vede comunque davanti al golf e al ciclismo, la RWC giapponese ha registrato risultati eloquenti soprattutto sul piano dell’incremento di contenuti digitali, cioè quel settore che inevitabilmente migliora la fan base tramite esperienze più immersive, interattive e personalizzate.
Le statistiche ufficializzate dal board di World Rugby parlano di una cifra record di 1,7 miliardi di views integrate fra tutti i canali web della RWC. Un dato roboante che supera nettamente i 500 milioni di views della RWC 2015.
Se tutto ciò è visto come un pericolo forse andrebbe cambiata la prospettiva prendendo in esame ciò che è successo con il Volley italiano durante i ricchi e ruggenti anni 90. A fronte di un boom di risultati della nazionale e di un incremento di nuovi praticanti, la pallavolo italiana non ha più raggiunto il ruolo mediatico che avrebbe dovuto avere e il ciclo di promozione della disciplina nel pubblico di massa sembra sia oggi in fase di stallo. Anzi, di Andrea Giani che pubblicizza il Maxicono Motta sulle TV nazionali non ce ne sono più.
Il rugby ha oggi molti terreni vergini da esplorare, non ultimo l’accesso alle Olimpiadi del Seven e la nuova frontiera indoor del Rugby X. Uno sport un po’ conservatore come il nostro che diventa più ricco non deve sempre spaventare, anzi, può voler dire un prodotto più attraente per i tifosi, maggiori investimenti nei protocolli di sicurezza per gli atleti, stadi all’ avanguardia, ricerca e sviluppo sulle aree tecniche del gioco.
Dunque è possibile reggere l’urto di una robusta iniezioni di risorse senza perdere in sostenibilità?
Si è possibile. A fare la differenza saranno ancora una volta i valori unici e non negoziabili del nostro sport. Perché competere in uno scenario economico rampante richiede regole e persone incorruttibili a condurre il gioco. Esattamente come avviene sul campo da rugby.