Inghilterra – Nuova Zelanda è la partita che aspettiamo da un decennio. Anzi è la partita del decennio. In campo a Yokohama per un posto in finale vanno le squadre che racchiudono oggi il più alto concentrato di talento del rugby mondiale.
Dieci anni di schermaglie in cui la Nuova Zelanda ha recitato la parte della dama bella e impossibile. Tutti la vogliono, nessuno la prende. Troppo perfetta per avvicinarsi a lei. L’Inghilterra invece dopo aver sedotto il mondo intero fra il 2003 e il 2007 è andata in crisi. Due anni di stallo dopo la finale di Parigi, poi il gap con i tuttineri si acuisce e serviranno dieci anni per ritrovarsi, ricostruirsi, rifarsi bella e riacquistare un equilibrio psicofisico che la portasse ad essere anche lei lì, dove le compete e dove ha sempre voluto stare, a sgomitare per salire sul trono mondiale.
Che poi Steve Hansen ci racconti di una rivalità storica fra gli All Blacks e il Sudafrica è normale, quasi ovvio. Gli Springboks sono i competitors diretti per ragioni di calendario internazionale. In cuor suo però lui sa che questa partita è la sfida più difficile e al contempo più stimolante dell’ultimo quadriennio.
Inghilterra – Nuova Zelanda chiude il cerchio della rivalità fra emisferi, risponde alla sfida fra due modi diversi di vedere, strutturare e concepire il rugby. Di mezzo c’è la storia di questo sport, fra chi la bislunga l’ha inventata nel lontano 1823 e chi nel secolo successivo l’ha abbellita rendendola scintillante. Inghilterra – Nuova Zelanda è una somma di partite nella partita. E’ Saracens contro Crusaders, (8 giocatori dei Sarries e 11 giocatori della franchigia di Cristchurch) cioè le due squadre di club che dominano incontrastate nei rispettivi continenti. E’ Steve Hansen contro Eddie Jones, i due volponi più furbi, scafati e mediatici del rugby internazionale. E’ Owen Farrell contro Beauden Barrett, i due trequarti più completi e polivalenti che si possano trovare oggi in circolazione. E’ una sfida fra fratelli, con la triade dei Barrett che si contrappone alla coppia dei Vunipola. E’ un momento di grande rugby che nessuno si vuole perdere.
Dal nostro microcosmo di tifosi italiani possiamo solo ammirare con una buona dose di invidia questa carica di emozioni che avvicina la semifinale della RWC ai grandi eventi dello sport professionistico. Si, noi rugbisti siamo diversi dal calcio, dal basket, dal football americano e dalla formula 1, ma se la vigilia di Inghilterra – All Blacks è contraddistinta dalle velate provocazioni in conferenza stampa e soprattutto da accuse di spionaggio, allora è il sintomo che il termometro della tensione sta salendo molto in alto perché la posta in palio è inevitabilmente alta. Più alta di sempre visti i grandi numeri in termini di introiti e spettatori generati dal mondiale giapponese.
Rimanere neutrali è impossibile. Non ci si può comportare da Svizzera mentre il mondo là fuori si fa la guerra (sportivamente parlando s’intende). Allora per chi tifare? Se non fosse Inghilterra – Nuova Zelanda probabilmente la risposta cadrebbe sugli All Blacks, per la naturale capacità di dare spettacolo e sedurre sia gli appassionati di lungo corso che i neofiti dell’ultima ora. Invece il XV della Rosa nell’insolita veste di outsider strizza l’occhio ai tifosi del vecchio continente che in queste occasioni ritrovano una forma di orgoglioso e solidale europeismo da far invidia ai politici di Bruxelles.
Attenzione però che gli All Blacks dell’ultima decade non perdono mai, a meno che non si tratti di partite dove in palio c’è solo la gloria. Agli inglesi viene richiesto indirettamente di concludere il lavoro iniziato dai British&Irish Lions nel 2017 e dare lo scossone definitivo al ritorno prepotente dell’Emisfero Nord nel salotto buono delle quattro migliori squadre del mondo. Facile? Per nulla. Le statistiche parlano chiaro: 41 match di cui 33 vinti dagli All Blacks, 7 dall’Inghilterra e un solo pareggio.
Sotto la gestione di Eddie Jones si registra un solo precedente. Il match giocato un anno fa a Twickenham e perso dagli inglesi 15 a 16. Questo sì un segnale concreto di come il coach australiano sia stato capace di ridare fiducia ad una squadra dilaniata dal fallimento mondiale del 2015 rendendola di nuovo competitiva. Lo confermano le parole di Manu Tuilagi, uno che prima dell’arrivo di Jones aveva il vizietto di alzare il gomito, combinare disastri, e oggi, rigenerato spiega che: Questo gruppo di giocatori dell’Inghilterra è probabilmente il più unito che ci sia mai stato. Tutti remano nella stessa direzione.
Se la direzione è quella giusta lo scopriremo fra 24 interminabili ore. In ogni caso sarà bianco o nero. Senza vie di mezzo.