L’Italia ha perso e anche se matematicamente non è uscita dalla RWC sappiamo tutti cosa ci aspetta sabato 12 ottobre. Gli All Blacks sono un tema di cui ci occuperemo più avanti perchè oggi vogliamo tornare sui fatti di Shizuoka e capire cosa ha spinto l’opinione pubblica (di quei quattro gatti che seguono la palla ovale) a cercare con tanta insistenza di dare un volto in carne ed ossa al responsabile della sconfitta con il Sudafrica.
La ricerca del capro espiatorio, classico fenomeno italiano, ci porta diritti ad Andrea Lovotti. Esercizio decisamente ingeneroso per giustificare una sconfitta maturata a tutti gli effetti nei primi quaranta minuti. Chi parla di sogno spezzato non ha ben chiaro che il rugby è uno sport dove le favole a lieto fine si costruiscono sul lavoro, sulla programmazione e non sull’entusiasmo del momento. Venivamo da due vittorie larghe, pronosticate e poco indicative. Va detto. Il Sudafrica infatti ci ha riportato sul pianeta terra fin dalle prime battute della gara. Il pacchetto degli Springboks sembrava sceso in campo con la precisa intenzione di demolirci fisicamente tanta era la furia dei ball carrier sapientemente istruiti da Erasmus. E proprio gli uomini deputati a questo lavoro ai fianchi ci hanno messo all’angolo per tutto il primo tempo. Per questa ragione non è legittimo pensare che il cartellino rosso sia stato il nostro punto di non ritorno.
Cerchiamo di ritrovare equilibrio e di ricordarci chi siamo e da dove veniamo. Facendo un rapido flashback sono pochissime le partite recenti in cui l’Italia ha saputo ribaltare nettamente il risultato nella seconda parte dell’incontro. A memoria mi sentirei di ricordare solo un Italia – Francia del Sei Nazioni 2011 giocata al Flaminio e vinta 22 a 21 dopo un primo tempo finito 6 a 18. Poi? Poi più nulla. La capacità di invertire l’inerzia delle partite non fa parte del nostro corredo genetico. Facciamocene una ragione. Quindi gettare la croce con tanto di veleno acido su Andrea Lovotti è profondamente sbagliato. Anche perché il pilone piacentino è stato uno degli uomini più utilizzati della gestione O’Shea e fino ad oggi ha tirato la carretta, spesso per ottanta minuti, senza mai andare sopra le righe né in campo né fuori. Certo ha commesso un errore grave, però non è stato l’unico. A sforbiciare per aria Vermeulen c’era anche Quaglio che al contrario suo è stato letteralmente graziato da Barnes, e se proprio vogliamo parlare di scelte folli, cosa dire dei due calci di punizione non piazzati per andare in touch quando la linea difensiva del Sudafrica sembrava tutto tranne che vulnerabile? Punti raccolti da queste prove di coraggio? Zero. Palloni recuperati dalle mani del gigante Etzebeth? Due. Allora è giusto riprendere un po’ di razionalità e capire che l’Italia stava giocando si con grande cuore, ma comunque dominata da un Sudafrica che fin lì aveva monopolizzato le fonti del gioco. Avremmo potuto ridurre il gap o forse avremmo potuto sbattere nuovamente contro i muscoli delle scaltre seconde linee sudafricane. Non possiamo saperlo.
Ciò che sappiamo è quello che scrivono i giornali. I titoli di alcuni quotidiani come il Corriere dello sport che scrive ‘Anche nel rugby esiste l’autogol’ non mi sono piaciuti e denotano una grande ignoranza su quelli che sono gli equilibri storici del rugby internazionale. Il Sudafrica non ha mai toppato l’ingresso ai quarti di finale da quando partecipa alla RWC, mentre l’Italia non ci è mai riuscita. Piccolo dato che andrebbe tenuto in considerazione visto che il rugby non è uno sport molto avvezzo ai cambiamenti. A credere in un’impresa azzurra dunque erano solo sprovveduti appassionati dell’ultima ora. Lo si capisce dal continuo rimando alla vittoria di Firenze sugli Springboks nel 2016. Una giornata di festa per il rugby italiano arrivata anche grazie ad una squadra avversaria che allo stadio Artemio Franchi offrì una prestazione ai minimi storici. Quella finestra autunnale di Test Match viene ricordata ancora oggi per un successo da incorniciare nell’album dei ricordi, ma chi omette la sconfitta con Tonga subìta sette giorni più tardi non capisce che la distanza fra noi e il Sudafrica era ed è ancora grande.
Lovotti paga il suo placcaggio scellerato con una squalifica di tre settimane, ma ciò che si legge sui social network andrebbe fotografato e riletto quando l’Italia vincerà una partita con punteggio largo come contro il Canada. La pletora di opinionisti che già incoronava Jake Polledri come miglior giocatore del mondo è la stessa che una settimana dopo ci annoia fra Facebook, Twitter ed Instagram proponendoci le più fantasiose soluzioni per rifondare il rugby italiano. Un ritornello abbastanza noioso di cui non si sente la necessità perché le prestazioni vanno giudicate con attenzione verso ciò che succede in campo. Laddove non si conoscono le dinamiche del gioco a volte è meglio tacere, perché perdere costantemente non piace a nessuno. Leggere commenti feroci e privi di parametri oggettivi piace ancora meno. Forse per rifondare il nostro rugby potremmo partire proprio dal pubblico, educandolo attraverso una profonda opera di divulgazione delle regole, dei rudimenti tecnici e della storia di questo bellissimo sport. Altrimenti possiamo continuare a fare il tiro al bersaglio verso gli azzurri. Un gioco divertente ma che in questo momento difficile non serve a nessuno.