Circa tre settimane fa durante un evento formativo ho incontrato il professor Valter Durigon. Sono rimasto positivamente sorpreso dall’ approccio analitico di un professionista dello sport che trasmette ad ogni suo intervento voglia di imparare. Credo che la sua filosofia di lavoro possa essere un ottimo spunto di riflessione, soprattutto per chi è interessato a comprendere i meccanismi del lavoro fisico nel rugby. Valter Durigon è docente e ricercatore di teoria e metodologia dell’allenamento presso la facoltà di Scienze Motorie dell’Università di Verona. Autore di numerose pubblicazioni e del libro Non solo rugby…e non solo per il rugby, ha ricoperto incarichi in seno alla Federazione Italiana Rugby e in molti club ovali del Veneto. Di seguito la sua intervista.
Professor Durigon, partendo da un’analisi della preparazione fisica nel mondo del rugby, ci racconta come ha intrecciato la sua carriera con la palla ovale italiana?
Il primo passo da fare analizzando il tema della preparazione fisica nel rugby è quello di sgombrare il panorama da preconcetti, falsi miti e credenze sbagliate. La mia visione non vuole essere semplicistica, piuttosto essere una visione semplice. L’aspetto fisico nel rugby è un elemento fondamentale ad assicurarti un elemento cruciale che è l’ efficienza. Quello che poi conta davvero è l’efficacia, una caratteristica non solo fisica ma che tocca anche aspetti tecnico – tattici. Parlare di efficienza fisica significa guardare ad un insieme che comprende potenza, resistenza, forza ma che per essere utile deve rimanere al servizio dell’efficacia. In un passato non troppo lontano il rugby italiano si è concentrato maggiormente sulla prima a discapito della seconda. Il gioco del rugby nel mondo, poco prima del professionismo si è trovato ad attraversare un mutamento epocale, probabilmente senza i dovuti accorgimenti. Da un semplice gioco è passato ad essere una sorta di “atletica giocata”, quindi per allinearsi ai tempi serviva una robusta iniezione di competenze e l’unica via che poteva percorrere il rugby italiano era di andare a intercettare quei professionisti che arrivavano appunto dall’atletica leggera. Io ero uno di questi. E subito mi sono posto una domanda: perché il rugby cerca me? Come posso far diventare veloci atleti che non conosco e che hanno peculiarità completamente diverse rispetto ai velocisti da pista? Io alleno atleti veloci a restare veloci, non a diventare veloci. Già se uno dei miei atleti non diventa più lento posso ritenermi bravo. Per cui è abbastanza facile intuire che far diventare veloce un giocatore di rugby partendo da zero è impossibile. Allora per uscire da questo limbo mi sono preso alcuni mesi di pausa e ho studiato la materia, le sue caratteristiche, la sua storia e sono arrivato poi ad entrare in questo mondo con più consapevolezza. Un mondo dove lavoro ancora oggi cercando di porre interrogativi e trovare soluzioni non convenzionali.
Uno dei temi più dibattuti è quello della mancanza di sport fra le mura scolastiche. I bambini ne fanno poco e lo fanno male, per poi trovarsi spesso a dover sopperire le lacune attraverso attività proposte dalle società sportive. Come si contribuisce a cambiare una cultura che vede i bambini ancora troppo protetti, poco sportivi e spesso allenati senza competenze specifiche?
In Italia si è pensato per molto tempo che i bambini fossero degli essere fragili, che non dovessero essere allenati o stimolati . Invece i bambini hanno bisogno solo di stimoli giusti, che però non sono stimoli a bassa intensità. Liberiamo il campo da questo falso mito. La capacità di adattamento degli esseri umani è particolarmente sviluppata nelle fasce di età più giovani, per questa ragione offrendo ai bambini dei corretti carichi di lavoro, abbiamo la possibilità di svilupparne al meglio le capacità motorie. Invece cosa succede oggi? teniamo i bambini nella bambagia fino ai 12-14 anni e poi iniziamo ad aumentare i carichi di lavoro senza una reale progressione, facendo tutto ciò che molto semplicemente andava fatto prima. Lavorare con i giovani non è più difficile, ma è più complesso. Basta solo un anno di differenza fra un under 10 e under 11 e la programmazione del lavoro cambia radicalmente. Per questo gli educatori deputati a lavorare con le fasce di età più basse dovrebbero essere preparati ad acquisire competenze specifiche, preparati a rispondere ad esigenze particolari e quindi essere messi in condizione di perfezionarsi scegliendo un solo blocco di lavoro fra quello juniores e quello seniores. Questa linea di demarcazione, in un modello ideale, dovrebbe essere scelta dalle federazioni stesse. Una divisione gestionale fra il mondo dei grandi e quello dei piccoli, in cui allenatori, dirigenti e preparatori scelgono quale sarà il loro settore di riferimento per poi affinarsi di conseguenza. E’ difficile da dire, ma abbiamo perso intere generazioni di potenziali talenti per mancanza di specializzazione fra gli educatori.
Passando dal rugby dei piccoli a quello dei grandi spostiamo il focus sugli atleti di caratura internazionale. Ormai il dibattito sulla gestione dei carichi di lavoro e soprattutto sul recupero fisico fra una competizione ed un’altra risulta essere un leit motiv costante degli addetti ai lavori. Vista la tendenza a preservare gli atleti dagli infortuni, esiste un inizio e una fine dei progressi fisici di un giocatore di rugby?
Per esperienza diretta posso affermare che gli atleti più longevi sono quelli che si sono allenati meglio da giovani. Quando dico “longevi” intendo quegli atleti che sono arrivati integri e ancora competitivi fino alla fine della carriera, magari raggiungendo l’apice prestativo anche ben oltre i 30 anni. Dall’atletica leggera al rugby, passando per la pallavolo, tenendo in considerazione le caratteristiche genetiche o il ruolo più o meno usurante ricoperto in campo, i casi di longevità vanno a braccetto con una preparazione giovanile accurata. Certo, oggi ci troviamo di fronte ad una gestione più corretta degli infortuni e dei relativi tempi di recupero, così come è evidente che il concetto di allenamento è cambiato molto nel corso degli anni. Abbiamo passato una fase storica in cui, anche sotto condizionamento degli allenatori e dei preparatori fisici, il carico era sempre e comunque spinto al massimo. A forza di caricare però si verificano ancora oggi due controindicazioni. Nella migliore delle ipotesi l’atleta non migliora. Si arriva ad un assestamento della performance in cui il corpo si abitua e la curva di miglioramento si ferma nonostante l’individuo in questione provi ad allenarsi sempre di più. Emblematico l’esempio di Pietro Mennea che aggiungeva di nascosto carichi di lavoro non concordati rispetto alla programmazione del suo allenatore Carlo Vittori ed in sostanza non registrava miglioramenti sui tempi. Nella peggiore delle ipotesi invece la “macchina” si inceppa, si rompe e si diventa più soggetti ad infortuni. Per fare un esempio del giusto equilibrio fra i carichi di allenamento, mi immagino la programmazione di un preparatore un po’ come una musica, fra acuti e pause, con una ricerca del suono giusto attraverso l’attività costante e quotidiana. Quello che invece mi rifiuto di accettare sono i luoghi comuni che vogliono una squadra o un atleta a riposo dopo una prestazione vincente, o l’allenamento duro e punitivo dopo una sconfitta. Queste operazioni sono desuete e prive di logica.
A proposito di luoghi comuni. Esiste il cosiddetto “sport completo”? Il Rugby è un gioco che necessita di collegarsi ad altre discipline per costruire un buon quadro motorio in età evolutiva?
Io penso semplicemente che non esista uno sport realmente completo. Le mamme italiane nel più classico degli stereotipi iscrivono il bambino a nuoto con la sicurezza che sia una disciplina adatta a sviluppare armonicamente tutto il corpo, ma questo non è vero. Manca di alcuni elementi importanti. Non c’è forza di gravità, non è uno sport simmetrico, perché quando lo pratichi dovrai spingere milioni di volte sempre con un braccio di più che con l’altro. Detto questo, il nuoto è uno sport da demonizzare? Assolutamente no. Per sviluppare le capacità motorie va bene anche il nuoto, a patto che non diventi lo sport esclusivo dell’età evolutiva. Rispondendo alla domanda sul rugby, sono fermamente convinto che un buon giocatore di rugby dovrebbe vivere nel periodo dell’apprendimento preliminare il contatto con più discipline diverse e poi specializzarsi. Qual è lo sport che mi fa conoscere bene gli sbilanciamenti? Il Judo. Qual è lo sport che mi fa governare la forza e la velocità? L’atletica. Quali sono gli sport che mi fanno conoscere meglio l’ambiente e la relazione con gli altri? Calcio, basket, volley ecc. Provarli tutti è un buon viatico per avere in futuro un giocatore di rugby più completo.
Cosa è che ci rendi distanti dalle nazioni più competitive dello sport mondiale?
La parola che descrive quanto siamo distanti oggi rispetto agli standard internazionali è destrezza. Un termine che è stato praticamente cancellato dai libri e dal gergo sportivo. La destrezza, senza andare in cerca di definizioni eccessivamente dotte, è la semplice capacità di sapersela cavare in ogni condizione. Mi spiego meglio, e lo faccio partendo da un esempio evidenziato anni fa da un collega americano che lavorava come preparatore fisico per una squadra di Basket universitaria degli USA. Prendiamo i migliori 20 giocatori di pallacanestro della storia recente e chiediamoci: che cosa hanno in comune? Capacità fisiche subnormali? Non direi, perché un cestista come Larry Bird era palesemente un uomo normale prestato allo sport professionistico. Tecnica sopraffina? Nemmeno, perché Wilt Chamberlain non viene ricordato come il giocatore più preciso di sempre. Se però ci imbattiamo negli highlights di questi giocatori vediamo che sono tutti capaci di realizzare canestri in condizioni di squilibrio rendendo facili le cose più difficili, mantenendo un controllo del corpo impeccabile . Due esempi di giocatori di rugby che brillavano per destrezza sono Brian O’Driscoll e Ivan Francescato. Entrambi riuscivano ad eludere spesso le difese con la finta, ovvero un gesto creativo difficilmente allenabile a meno che non si metta il giocatore in condizione di vivere l’apprendimento attraverso forme ludiche fin da quando è bambino.
Questo ragionamento ci conferma che per avvicinarci allo standard dell’alto livello internazionale dobbiamo impostare un metodo che porti i bambini fuori dalle loro zone di comfort, esporli a dei “rischi formativi” che ne possano stimolare l’apprendimento motorio. Proporre sempre situazioni diverse, riappropriasi del concetto di gioco, affacciarsi curiosamente ad altre discipline e sostenere i ragazzi nei difficili tentativi di cambiamento delle cattive abitudini. Questa è la ricetta più plausibile per uniformarci ad un mondo dello sport che non accenna a fermare il suo processo evolutivo.