Manca soltanto un giorno alla finale del Guinness Pro 14 fra Glasgow Warriors e Leinster e per la prima volta nella storia di questa competizione internazionale l’atto conclusivo si giocherà in uno stadio che non è solo uno stadio, ma il tempio del calcio scozzese di parte cattolica: Celtic Park.
Per capire meglio cosa significa vivere di rugby a Glasgow ho scelto di parlare con un professionista del settore che conosce da vicino la galassia Warriors. Lui è Francesco Fronzoni, amico di lunga data e oggi fisioterapista del club scozzese. Insieme abbiamo cercato di offrire uno spaccato dei glaswegians con il focus principalmente orientato sull’area tecnica. Francesco infatti prima di essere un fisioterapista giramondo stimato e titolato (vanta esperienze accademiche anche in Australia) è stato un giocatore di ottimo livello e ha toccato da vicino il Super 10 italiano con i Cavalieri Prato non prima di aver vestito a più ripetizioni l’azzurro delle nazionali giovanili. Classe 1987, ex trequarti centro, è una voce non banale che ci ricorda quanto il nostro contributo al rugby fuori dai confini nazionali sia piccolo ma significativo.
Il primo pensiero va alla finale di domani. Un evento a suo modo storico, nella tana della tifoseria cattolica che si contrappone a quella protestante, in una città che quando parla di sport lo fa rispondendo solo ad un domanda: “Sei per il Celtic o per i Rangers”? Da qui parte il viaggio alla scoperta della Glasgow rugbistica, un’isola felice che non divide i tifosi per rigidi dogmi religiosi ma li unisce in nome del sacro vincolo della palla ovale.
“Il calcio in città è un elemento fondante. Prendi in considerazione i due stadi di Rangers e Celtic e capisci che la rivalità sportiva fra queste due squadre monopolizza in larga parte l’ attenzione verso lo sport professionistico. Due arene da 60.000 posti che ogni week end si infiammano di passione. Due comunità che si riconoscono nella parte cattolica e popolare dei Celtic così come nella parte protestante e borghese dei Rangers. Poi ci siamo noi, i Glasgow Warriors, che domani ci giochiamo la seconda finale in quattro anni e che negli ultimi sette anni siamo diventati una big apprezzata e riconosciuta del Pro 14. In questo contesto cittadino che ci vede come “terzi incomodi” il club è stato in grado di fidelizzare un gruppo di tifosi molto numeroso grazie ad un management capace di lavorare con grande efficacia per rendere il club più appetibile ai giocatori internazionali, al pubblico e agli sponsor. Non ci dobbiamo scordare che quando la squadra si chiamava ancora Glasgow Caledonians il numero medio di spettatori a partita arrivava difficilmente a 1000 persone. Oggi lo Scotstoun stadium sa esprimere un’atmosfera molto calda e anche i tifosi dei Rangers e dei Celtic iniziano a fare capolino per le partite interne. Non sono state sufficienti le provocazioni di Leo Cullen che ha chiamato a raccolta i tifosi del Celtic in nome di una ‘fratellanza irlandese’ (è vero, la fan base dei Celtic ha una forte componente irish al suo interno) con Leinster per convincere le due comunità a dividersi. I “Guerrieri” del rugby non hanno preferenze: a Glasgow il rugby è uno sport senza etichette.“
A Glasgow però il rugby è anche uno sport vincente. Negli ultimi cinque anni sono arrivate tre finali e un titolo assoluto di Pro14 raggiunto nel 2015 sotto la gestione Townsend. Gli uomini del guru neozelandese Dave Rennie oggi sono una realtà in ascesa verso l’elite del rugby europeo e soprattutto appaiono come una squadra capace di segnare in tutte le maniere. Un repertorio tecnico affascinante fatto di attacchi per linee dirette, di passaggi lunghissimi, di corse imprevedibili e di uso chirurgico del piede. Un running rugby che ci dà una certezza: a vedere gli Warriors ci si diverte. Francesco ci spiega la ricetta del Professore di Wellington.
“Quando Dave Rennie è arrivato qui, io ero entrato in squadra da meno di un anno. Il suo messaggio è stato subito molto chiaro: ‘voglio vincere il Pro 14, la Champions Cup e la 1872 Cup. Ogni anno in cui sarò in carica dobbiamo competere per raggiungere questi traguardi’. Con tali premesse i giocatori sono motivati a dare il massimo e hanno degli obiettivi ben definiti, ma quello che sorprende è la metodologia utilizzata per arrivarci. Coach Rennie infatti non accetta compromessi e lavora sempre per vincere con un rugby di movimento che non intende snaturare per nessuna ragione al mondo. Nel 2017 siamo rimasti bruciati dalla sconfitta nei quarti di finale di Champions Cup con i Saracens. In quella partita per la prima volta fu scelto un game plan rigido, molto prescrittivo e programmato nei minimi particolari. In sostanza abbiamo sfidato la corrazzata inglese sul loro punto forte e il risultato fu deludente. Allora lo staff ha deciso di mettere sempre al centro del progetto tecnico il singolo giocatore, lasciandolo abbastanza libero di decidere le soluzioni tattiche in base alle situazioni che si trova di fronte. Una libertà che si ritrova anche nel processo di analisi della performance, dove sono gli stessi giocatori a realizzare i tagli video delle proprie prestazioni e poi a chiedere i correttivi agli specialisti dello staff. Il credo tecnico di Rennie punta forte sulle skills individuali e sulla capacità di affinare i gesti tecnici. Per questo tutti gli allenatori del club prestano sono molto attenti alle esigenze della squadra e si rendono disponibili a lavorare anche oltre i tempi definiti dai programmi settimanali. I giocatori vengono stimolati a prendersi dei rischi, ma devono farlo con un repertorio tecnico così allenato che anche una giocata azzardata deve riuscire la maggior parte delle volte che viene provata. In sostanza se il nostro rugby fa spettacolo dietro le quinte non c’è niente di improvvisato. ”
E qui scatta la domanda sull’ambiente di lavoro. Al”interno della franchigia scozzese ci sono molto atleti di caratura internazionale. Giocatori di classe come Stuart Hogg o Jonny Gray come si approcciano al lavoro quotidiano?
“Probabilmente sono i giocatori più emblematici della squadra. Professionisti esemplari. Li vedi allenarsi e non pensi mai che possano essere campioni affermati. Svolgono ogni seduta di allenamento al massimo e ricercano la perfezione su ogni skill del proprio ruolo. Sono costantemente a confronto con lo staff tecnico, sempre con umiltà, perché vogliono mantenere il livello prestativo raggiunto e anzi, capisci che vogliono sempre alzare l’asticella. In una rosa come la nostra ci sono 52 giocatori e nonostante la fisiologica rotazione dei migliori imposta dalle esigenze della Nazionale, c’è una grande competizione interna per giocare. Anche i ‘senatori’ devono mantenere degli standard piuttosto alti per essere sempre selezionati. Andando sui singoli giocatori posso dirti che Hogg, come noto, ci lascerà a fine stagione per andare ad Exeter. Questa sarà una grande perdita per tutto il club dal momento in cui proprio lui incarna l’esempio migliore del giocatore cresciuto secondo la filosofia Warriors. Da nove anni a Glasgow, qui si è affermato e qui ha raccolto i primi riconoscimenti personali e collettivi. Nella logica di un professionista è normale cercare nuove sfide e tutto il management ha accolto la scelta con grande rispetto. Jonny Gray invece sarà ancora con noi e non differisce molto da Stuart Hogg per quello che riguarda il percorso di crescita interno alla franchigia. Ha solo 25 anni e appare agli occhi di tutti come un giocatore navigato. E’ uno dei più assidui frequentatori di quello che in squadra definiamo il ‘Warriors Fifteen’ ovvero uno spazio di perfezionamento tecnico dove i giocatori lavorano sulle abilità tecniche al di fuori degli orari di allenamento. Non è raro vederlo lì mentre il resto dei compagni è già in doccia. ”
Hai parlato di management. A proposito di staff, come ti trovi nell’ambiente Pro dei Glasgow Warriors? Propositi di rientro in Italia?
Glasgow è una squadra che esprime una forte Club Culture. Ci sono tanti piccoli gesti che ti fanno percepire un clima positivo e alcuni sono stati inseriti da Gregor Townsend, colui che è a tutti gli effetti artefice della rinnovata competitività degli Warriors su scala europea. Tooney voleva che ogni giorno i giocatori, lo staff, e il personale operativo avessero l’accortezza di stringere la mano a tutte le persone del club. Oggi a Dave Rennie piace mettere in cerchio i giocatori dopo le vittorie e condividere una birra con loro mentre lui si sveste dei panni del coach e suona la chitarra. Sono delle piccolezze che però ti avvicinano a sentirti un membro del team, qualsiasi sia il tuo ruolo all’interno della società. Per quanto riguarda la possibilità di tornare in Italia direi che non escludo nessuna eventualità a priori. Mi piacerebbe farlo per un upgrade professionale, magari all’interno di un club professionistico o di una federazione sportiva di qualsiasi altra disciplina. Per adesso la mia vita è in Scozia. Qui mi trovo bene, mi sono sposato e sono motivato per lavorare al meglio con i Glasgow Warriors.