La finale di Champions Cup 2019 è a pochi minuti dal termine quando dalla panchina dei Saracens si alza un giocatore che merita un applauso speciale. Schalk Burger sta prendendo il posto di Billy Vunipola e a conti fatti si tratta del passo di addio dal palcoscenico internazionale dopo una carriera memorabile.
Il biondo flanker sudafricano a 36 anni ha infatti deciso già da tempo di lasciare il club campione di Europa per fare ritorno in Sudafrica dopo più di 16 anni di rugby giocato al massimo livello.
Atleta iconico per stile di gioco e carisma, ha vissuto due anni intensi con i Saracens sviluppando al meglio il ruolo del giocatore di esperienza senza disdegnare un buon flusso di presenze fra Premiership e Champions Cup. Lo staff di Mark McCall per ovvie ragioni di età non avrebbe mai potuto sfruttarne a pieno regime la devastante potenza fisica che lo ha reso celebre nel mondo, ma sapeva che un giocatore con il suo pedigree internazionale avrebbe fatto comodo in uno spogliatoio pieno di giovani stelle. Un’ operazione già sperimentata in passato, quando ai Sarries approdarono campioni del calibro di Taine Randell, Abdel Benazzi, Chris Jack, Raphael Ibanez. Tutti uomini di esperienza che univano al talento una forte personalità, tale da renderli leader carismatici a qualsiasi latitudine.
La storia di Schalk Burger però è significativa soprattutto per come ha saputo reagire a degli infortuni che avrebbero steso chiunque. Se oggi il dibattito sulla durata di carriera dei giocatori professionisti è più caldo che mai, lo si deve anche a situazioni vissute da Burger stesso. Nel 2006, all’apice della carriera, in procinto di giocare un mondiale da protagonista, rischiò di dire addio al rugby per un serissimo infortunio cervicale. Nonostante otto mesi di stop con la paura di una lesione permanente il ragazzo torna a fare scintille sul rettangolo di gioco. La sfortuna però lo ha inseguito anche più avanti, quando nel 2013 durante un’operazione per rimuovere una ciste alla schiena scaturì una meningite batterica che mise a repentaglio la vita del sudafricano. Fermo praticamente per un anno, con quasi 30 kg in meno, allenandosi fra bicicletta e trekking, il flanker di Port Elizabeth si riprese con grande vigore e si giocò la RWC 2015 da pedina inamovibile dello scacchiere Springboks.
Combattente vero, di quelli che sul campo non lasciano nemmeno una goccia di sudore, è stato per anni un simbolo del tipico modo di giocare sudafricano. Feroce in difesa, poco spazio ai fronzoli e molto concreto in attacco. Certo, Burger aveva una propensione ad andare sopra le righe che gli è valsa molta attenzione da parte dei direttori di gara, ma ad un flanker sudafricano di 193 cm per 114 kg si può chiedere forse di essere delicato?
Giocatore emblematico di una generazione che dall’inizio degli anni 2000 fino ad oggi ha attraversato i mutamenti del rugby internazionale, con un palmares di quelli invidiabili: IRB player of the year, Campione del Mondo nel 2007, due Tri Nations conquistati, Una Currie Cup, in campo per quattro edizioni dei mondiali, ha vinto due Champions Cup e una Premiership con i Saracens. Quanto basta per entrare di diritto fra i giganti del nostro sport.
Le possibilità di rivederlo in campo? Piuttosto scarse, se non per qualche contratto breve, magari in quel Giappone dove già ha trascorso due anni con i Suntory Sungoliath prima dell’esperienza inglese. Burger infatti non ha fatto mistero di sentire il peso di una nuova pre season e di tutto ciò che ne consegue in termini di rinunce. Intervistato dai media inglesi ha affermato che se il rugby professionistico offrisse la possibilità di allenarsi due sole volte alla settimana potrebbe giocare fino a quarant’anni. In fondo, come dargli torto?